Recensioni / La vasariana modestia di critici e curatori

Oltre la storia dell’arte? Retromania, interviste e museo delirante

È stato Hans Belting, in un libretto del “Nuovo Politecnico” voluto trent’anni da Enrico Castelnuovo, a parlare, se non per primo, però meglio di tutti gli altri, di “fine della storia dell’arte”. Usando un sottotitolo (La libertà dell’arte) che porta con sé ancor oggi un quesito: libertà di farne cosa? E se la storia dell’arte è davvero finita, che cosa ne ha preso il posto? Recenti letture offrono alcune indicazioni.
Il primo modello è la replica, il rifacimento, insomma la pratica più o meno necrofora del “come eravamo”; “retromania”, nell’accezione di Simon Reynolds. I critici molto colti usano un termine, re-enactment, per dire una cosa molto semplice, e cioè: visto che non ci sono idee migliori, rifacciamo più o meno le stesse cose di un tempo. Ricordiamo i bei tempi andati, soprattutto quando sono i nostri. Questo è quanto ad esempio accaduto qualche anno fa con la “ripetizione differente” di When attitudes become form a Venezia o, in altro caso, con gli spettacolari rifacimenti degli allestimenti anni venti e trenta ora alla Fondazione Prada. Ed è quello che presumibilmente si terrà nel corso dell’anno.
Quel che vale per le mostre, vale naturalmente ancor più per i libri. Soltanto, è molto più istruttivo. Nel licenziare la ristampa alla sua Precronistoria 1966-69, Germano Celant un anno fa ha giocato d’astuzia: fare un passo prima, per farsi trovare avanti dopo (“dopo” significa ovviamente il genetliaco del Sessantotto). Il libro, una cronologia di meritori fatti artistici, uscita nel 1976, ricalcava il seminale Six Years di Lucy Lippard. Si era nell’ultimo momento unitario dell’arte del Novecento, entro un consolidato asse tra Europa e America. Un’idea di creatività collegiale fortificava se non un canone almeno una comunità riconoscibile. Il modello della cronologia ambiva alla descrizione nitida e il più possibile oggettiva, rimuovendo ogni mediazione critica. Una fiducia nel reperto e nel documento, in un’accumulazione solo apparentemente orizzontale: una data, un evento, un’opera. In realtà la critica precedeva, cioè selezionava a priori. Più compagno di percorso che osservatore esterno, il critico accettava cioè di confondersi dietro le opere e le parole altrui, per meglio siglare il patto. Non era possibile un discorso critico al di fuori della cornice che così ci si era data. Paradossalmente, questo silenzio diveniva ancor più flagrante, ratificando l’obiettività di una storia lineare, serrata, sostanzialmente priva di contraddittorio. Le cose sono andate così: lo avevamo scritto ieri, lo ristampiamo oggi. La funzione critica difesa dalla precedente generazione restava abbarbicata al ruolo del critico verboso, solerte giudice di gusto; oggi la si rilegge (ad esempio, in una recente antologia di Filiberto Menna, Cronache degli anni Settanta) con la nostalgica simpatia per le cose un po’ ossificate.
Il modello opposto è invece quello dialogico dell’intervista. Ne abbiamo sostanziosa prova (621 pagine) nel volume che raccoglie una minima parte delle interviste di Hans Ulrich Obrist nella versione italiana intitolate, con vasariana modestia, Vite degli artisti. Vite degli architetti. HUO, lo chiameremo così, lo conoscono tutti. Parla cinque lingue, non si perde una biennale, piace alla gente che piace, scrive sulle riviste più fiche del pianeta, è il capo della Serpentine Galleries. Perché non dovrebbe avere ragione? Infatti ragione ne ha, e da vendere.
Io ad esempio l’ho invidiato molto quando ho letto che lui a diciassette anni aveva incontrato Gerhard Richter. A quella stessa età (ci ho pensato a lungo, siamo coetanei) io non avevo incontrato nessuno di importante. Ma forse, a riflettere bene, l’importante, almeno per me, era stato proprio quello. Non dobbiamo insomma commettere l’errore di limitarci a deplorare i toni compiaciuti e divaganti, quella forma di sublime cazzeggio internazionale per cui c’è sempre qualcuno che sta per prendere un volo per Tokyo o è appena tornato da Sidney, o da Bangalore. Che quelli di HUO non siano i dialoghi di Paul Valéry e i suoi interlocutori non siano gli Arcadio e gli Eftimio interpellati con platonico sussiego da Cesare Brandi, lo sappiamo. Ed è bene non cedere alle tentazioni di risentimento sociale a fronte di conversazioni tra happy few cui non siamo invitati. In realtà, come è ovvio, la qualità dipende molto dagli interlocutori. E se lasciamo da parte ad esempio Dominque Gonzalez-Foerster, capace di ripetere otto volte in una pagina l’aggettivo “sperimentale”, o i comprensibili toni dolciastri con David Hockney (“Da quanto tempo hai questa casa?”, “Chiacchieri con i tuoi soggetti mentre li ritrai?”), si impara qualcosa di utile. Quando lo leggevo su “Domus”, ricordo che HUO aveva il vezzo di annotare il giorno, l’ora e la temperatura durante l’intervista: ma in fin dei conti quelle erano minuzie elvetiche. Qui si fa il contrario. Il testo dell’intervista in realtà è il montaggio di più colloqui, spesso a distanza di molti anni, sbobinati ed editati, un po’ come fece Carla Lonzi con Autoritratto, senza troppi scrupoli filologici. Il risultato è, naturalmente, di un’immediatezza e di una spontaneità fasulle, che rendono ancor più chiara – e, a suo modo, onesta – l’operazione. Il tono è discontinuo, colloquiale, rapsodico, a volte denso e ficcante, a volte sfilacciato e ondivago. “Servono” a qualcosa, siffatte interviste? Sì, servono a far capire il processo di invenzione e reinvenzione dell’artista che discute di sé: un processo frazionale di autorappresentazione che conosciamo bene, sin dai tempi in cui Fiale Bernard andò a intervistare il vecchio Cézanne, e quello si divertì a buttare lì certe frasette che ancor oggi è impossibile estirpare dai manuali.
Proprio per questo, a me sono piaciute le pagine in cui Frank Gehry confronta il suo lavoro con il gioco dell’hockey o con il portare la barca a vela; oppure quelle dove Gilbert & George spiegano la tecnica e l’organizzazione del loro studio come fosse una bottega d’altri tempi, e di quanto la progettazione sia importante al pari della promozione. Ma soprattutto nelle pagine si apprende, e qui lo riconosco a HUO, quanto sia necessario, al di là del tono branché et décontracté, studiare seriamente gli artisti di cui (o con cui) si parla, e saper porgere le domande giuste. Un’abilità che si apprende con il tempo, con la fatica (tutti quei viaggi…), con la lucidità, con l’empatia – e forse anche con la sopportazione (quante persone normali reggerebbero una conversazione con Marina Abramovič).
Certo, se qualcuno qui cercasse, complice il titolo, “vite” narrate e dispiegate resterebbe deluso; e forse meglio farebbe a rivolgersi là dove la finzione è dichiarata. Ad esempio nella letteratura. La casistica in letteratura è vastissima; sono ben noti i romanzi di Perec, di Aub, di Pamuk. Un libro di Roberto Pinto, Artisti di casta, ne rende ora conto. Détournements situazionisti, invenzioni borgesiane e letteratura fatta come Dio comanda. Anche lì si possono incontrare dialoghi, interviste, “vite”. Ad esempio, quando in Underwerld Don DeLillo fa parlare Klara Sax della sua installazione nel deserto. Certo, non è storia o critica d’arte: ma sono pagine scritte bene, e si impara anche di più.
Gli slittamenti dal tradizionale discorso storico-critico si possono infine misurare anche in un altro modo. Sulla scorta di Rem Koolhaas, Calum Storrie suggerisce infatti l’immagine del museo delirante, Delirious Museum, e prova a riassumerne la storia. Nella sua conformazione classica, il museo era pensato e vissuto come un sistema di organizzazione della conoscenza parificabile alla scansione cronologica e al modello evolutivo della storia. Si poteva passare da una sala all’altra come si sfogliavano le pagine delle Vite (quelle di Vasari, s’intende). Esiste tuttavia un’altra possibilità, che si può far iniziare dai ricettacoli di mirabilia incongrue e di stupefacenti curiosità, e che termina con lo spettacolo delle merci nella più sensazionale delle sue cattedrali, il museo “delirante”, inteso ormai, con divertita rassegnazione, come spazio deputato al tempo libero, anziché a un ideale pedagogico di edificazione civica. È naturalmente una storia ben nota, che passa attraverso le figure mitiche del flâneur benjaminiano, i paesaggi della metropoli surrealista, la “psicogeografia” situazionista. Spazi discorsivi fluidi, porosi e onirici, quando non appunto deliranti, paghi della propria indecifrabilità e irriducibili a ogni razionalità: fosse quella del piano urbanistico autoritario di Haussmann, dell’infilata modernista di sale del MoMA o, aggiungiamo noi, della rassicurante verbalizzazione di una biografia.
Così, la storia del Novecento racconta qui una caduta, quella del museo come archivio di un sapere ordinato, luogo di una tassonomia che ambiva a riflettere un ordine discorsivo lineare. Dal Louvre a Las Vegas, cioè dal museo alla metropoli: le teche che custodivano le preziose reliquie di una cultura si trasformano nelle vetrine dove le merci sono offerte a un pubblico di potenziali acquirenti; i cartellini che ne spiegavano a tutti l’importanza diventano gli strilli che cercano di catturare l’attenzione di un consumatore distratto.
In questa sua declinazione novecentesca e postmoderna, il museo diventa molte cose, prende a prestito metafore inusitate, tra il labirinto e la spirale (ma questo già lo diceva, quarant’anni fa, Manfredo Tafuri); oscilla tra l’intérieur e il mausoleo, accetta una perturbante reversibilità. Quello che era nato come gesto sovversivo individuale, di sontuosa intelligenza di gusto (la casa museo di John Soane) diviene giocosa sovversione di massa. Il delirio qui narrato somiglia troppo a quella deriva decostruzionista che speravamo di aver superato. Molti fra gli allestimenti tematici di mostre e musei derivano da lì, e il sospetto che servano perlopiù a nascondere una spaventosa mancanza di idee, o a titillare le aspettative più infantili del pubblico, resta intatto.