Recensioni / Quei santi un po’ fuori di testa

Guida alle reliquie miracolose d’Italia. Orletti: «Un viaggio particolare nella religione»

È uscito da poco un saggio davvero particolare: la Guida alle reliquie miracolose d’Italia (Quodlibet, pp. 229,16 euro) a cura del giovane abruzzese Mauro Orletti (è nato a Chieti), ormai bolognese d’adozione, che si conferma il raffinato narratore, preciso e ironico, della sua opera precedente Piccola storia delle eresie (sempre per Quodlibet). In questo libro pieno di storie e di avventure seguiamo con grande rigore storico il percorso e le bizzarre vicende di alcune delle più importanti e venerate reliquie del nostro paese.

Questo saggio sembra una sorta di continuazione del suo lavoro precedente sulle eresie. Da dove nasce il suo interesse a raccontare questi aspetti della religione cristiana?
«Raccontare la storia delle reliquie, seguire il percorso che le ha portate fino al luogo in cui sono custodite, appassionarsi alle vicende degli uomini e delle donne cui sono appartenute, significa fare un viaggio nella religione assumendo però un punto di vista del tutto particolare. Allo stesso modo, occuparsi delle varie eresie è stato un modo per provare a raccontare il cristianesimo recuperando la voce degli sconfitti, inevitabilmente soffocata dalla storiografia dei vincitori. Nessuna pretesa di riscrittura in nome di qualche verità, semplicemente la voglia di riportare a galla il pensiero di chi ha comunque contribuito all’evoluzione del cristianesimo».

Il suo viaggio tra le reliquie in Italia inizia in Abruzzo. Ci vuole parlare della teoria esposta nel suo libro su La Vera Icona di Manoppello?
«In verità si tratta di due teorie che procedono in parallelo e che, in qualche modo, ho cercato di far convergere. La prima riguarda la sindone: vi è chi la considera un falso storico e ne attribuisce la paternità a Leonardo da Vinci. Questi, pur con i limitati mezzi dell’epoca, sarebbe riuscito a trasformare una semplice tela di lino in una lastra fotografica ante-litteram, fissando su di essa la propria immagine. La seconda teoria, alquanto ardita, individua nel Volto Santo di Manoppello un autoritratto di Albrecht Dürer. In assenza di prove certe occorre basarsi su meri indizi. Che, per quanto labili possano essere, aiutano a superare credenze che ancor oggi è difficile mettere in discussione. Molti Abruzzesi sono convinti che il Volto Santo sia la “Veronica”, cioè il velo utilizzato da una donna di nome Veronica per detergere il volto di Gesù durante il Calvario. Più verosimilmente si tratta della storpiatura e fusione di due termini distinti: vera icona».

Lei ha collaborato con la rivista L’accalappiacani. Nel suo libro c’è l’eco dell’ironia beffarda di Paolo Nori o sbaglio?
«Lascio la risposta al lettore. Quel che posso dire è che ho cercato di rimanere sempre un passo indietro. Alcune storie sono così assurde e i risvolti a tal punto bizzarri, sebbene catastrofici, da non rendere necessaria alcuna sottolineatura. Per essere santi bisogna probabilmente essere anche un po’ fuori di testa. Basti pensare all’ostinazione con cui i martiri provocano i loro aguzzini, alla tranquillità con cui si lanciano tra le fiamme, si immergono nel piombo fuso o si lasciano annegare. Altrettanto pazzi devono essere coloro i quali eseguono minuziosamente gli ordini impartiti da una voce proveniente chissà da dove, frutto magari della propria mente, ordini privi di logica come predicare alle bestie, mungere le cerve, abbandonare la propria casa per inseguire una stella cometa attraverso il deserto. Insomma sì, nei vari racconti c’è sicuramente un risvolto ironico che però, se i miei sforzi hanno avuto successo, è direttamente legato alle vite di santi, beati e martiri più che al tono del libro».

Una delle reliquie più inquietanti è la lettera del diavolo, che chiude il libro. Come mai non è così nota al grande pubblico?
«In effetti è alquanto strano. Gli ingredienti per renderla celebre ci sono tutti: il coinvolgimento di una beata di cui si narra ne Il gattopardo, l’intervento diretto del diavolo, un enigma da decifrare. La lettera del diavolo è facilmente reperibile in rete sicché chiunque avrebbe la possibilità di cimentarsi nell’opera di traduzione del misterioso documento. È tuttavia probabile che i dubbi sull’autenticità della lettera abbiano fatto venir meno l’interesse delle persone. Si tratta poi di un oggetto di difficile classificazione. La missiva contiene una parola scritta di pugno dalla Beata Corbera che, in quanto tale, la rende reliquia di seconda classe. D’altro canto, trattandosi di una lettera scritta dal diavolo, ben difficilmente potrà realizzare miracoli o esaudire preghiere di fedeli bisognosi di una grazia».

Forse la reliquia più sorprendente è il Santo Prepuzio. Lei cosa ne pensa della sua misteriosa scomparsa avvenuta negli anni ’8o?
«La versione ufficiale parla di un furto avvenuto presso la casa dell’allora parroco di Calcata don Mario Magnoni. Ciò che lascia perplessi non è l’interesse suscitato in qualche ladro dal Santo Prepuzio. In fondo nel 2017 è stato rubato il cervello di San Giovanni Bosco, nel 2014 il sangue di Giovanni Paolo II, nel 2003 un pezzo del cranio di San Valentino. Quel che davvero sorprende è la scelta del parroco di custodire la reliquia dentro un mobiletto, all’interno di una vecchia scatola di scarpe. Insomma, il Santo Prepuzio di Gesù in una scatola di scarpe? Più verosimile, quindi, la teoria avanzata da quanti ritengono la storia del furto inventata al solo scopo di mettere fine, una volta per tutte, alla vicenda alquanto grottesca – e un po’ imbarazzante – del più sacro pezzetto di pelle mai esistito».

San Rocco, San Marco, Sant’Antonio, San Nicola: quasi dietro ogni santo c’è una storia appassionante di reliquie ritrovate, rubate, sparpagliate. Qual è la sua vicenda preferita?
«La spedizione per il trafugamento delle reliquie di San Marco è una delle storie più emblematiche. Intanto perché la finalità è essenzialmente politica: portare in laguna le spoglie dell’evangelista significa rivendicare la sede episcopale e ridimensionare l’influenza esercitata da Bisanzio. In secondo luogo perché se ne fanno carico Bono da Malamocco e Rustico da Torcello, due astuti mercanti veneziani che raggirano i custodi delle reliquie, provano a dissimulare il furto sostituendo le ossa di San Marco con quelle di Santa Claudia, nascondono il bottino tra foglie di cavolo e carne di maiale per scoraggiare controlli da parte dei doganieri di fede islamica. Come non bastasse, sebbene le reliquie giungano intatte a Venezia, già nell’XI secolo se ne perdono le tracce. Salteranno fuori in modo alquanto rocambolesco, rintracciate dallo stesso San Marco comparso ai fedeli in forma di leone. Viene così scritta la parola fine? Nemmeno per idea! Secondo una tesi piuttosto recente le reliquie conservate a Venezia non apparterrebbero a San Marco ma nientemeno che ad Alessandro Magno».

Una mancanza che si nota nel suo libro è il Sangue di San Gennaro. Come mai non ne parla?
«Il sangue di San Gennaro, come del resto la Sindone, sono reliquie così celebri, su cui si è scritto così tanto, da non permettere di aggiungere granché a quanto già noto. Per questo motivo ho deciso di occuparmene in modo, diciamo così, incidentale. Ad Amaseno, infatti, si conservare il sangue di San Lorenzo che, esattamente come quello di San Gennaro, è protagonista di un fenomeno di miracolosa liquefazione. Di più, a differenza di quello conservato a Napoli, il sangue di San Lorenzo non ha bisogno di alcuno scuotimento. Nel periodo della festa del santo si presenta allo stato liquido, per poi tornare a solidificarsi. Non solo. Il suo potere taumaturgico è assai specifico. Il ricorrere del miracolo, infatti, non prelude genericamente a un tempo di vacche grasse. Non bisogna nemmeno attendere agosto il 10 agosto, giorno del martirio di San Lorenzo – arso su una graticola – per inginocchiarsi davanti all’ampolla e pregare per guarire dalle ustioni. Insomma, San Gennaro perdonerà, nella scala delle reliquie ematiche il primo posto spetta al suo collega».

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