Recensioni / Renato De Fusco

Appartiene alla generazione successiva a quella di Dorfles, Sottsass, Zanuso. Sebbene in gioventù abbia manifestato propensioni artistiche – nel Dopoguerra intraprese l’attività di pittore – la vera strada l’ha trovata nel design, di cui è Io storico più autorevole. A 89 anni Renato De Fusco può tranquillamente dividere l’Italia tra un mondo che è esistito prima dell’avvento della plastica e quello che è venuto dopo, quando questo materiale accompagnò in maniera impetuosa il boom economico. Altri tempi, ormai tramontati, constata De Fusco il cui manuale Storia del Design è ancora oggi un vero bestseller.
Perché ha abbandonato la pittura?
«Senza un’intelligenza, o meglio un’inclinazione, fortemente creativa devi fare altro. Dipinsi soprattutto nel dopoguerra. Ero bravino. Presi parte a un gruppo di pittori che ruotava attorno alla rivista Sud, fondata dal mio amico Pasquale Prunas. Lì c’erano letterati, scrittori, registi che sarebbero diventati personaggi famosi: Francesco Rosi, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Anna Maria Ortese; giornalisti come Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio; e c’eravamo noi, il gruppo Sud-pittura, tra cui Renato Barisani, Raffaello Causa, Federico Starnone, Mario Tarchetti, Guido Tatafiore, Vera De Veroli, Raffaele Lippi. Contribuimmo allo svecchiamento dell’arte a Napoli, richiamandoci all’espressionismo e all’astrattismo. Non fu facile».
Perché?
«Il partito comunista a Napoli era una presenza forte e radicata. Il realismo socialista, un frutto rigoglioso che crebbe sotto lo stalinismo soffocando la grande stagione delle avanguardie russe, arrivò in Italia nel dopoguerra. Le direttive del Pci furono di uniformarsi alle tesi di Zdanov. Non proprio tutti vi aderirono. Ricordo che una sera a una cena Renato Caccioppoli, genio della matematica e comunista, definì Zdanov un emerito imbecille. Ma la gran parte dei funzionari e dirigenti comunisti condannarono ogni tentativo di rinnovamento formale nelle arti figurative. Napoli, o meglio gli artisti che la rappresentavano si divisero tra chi cominciò a dipingere metallurgici e mondine e altri, come noi, che si dedicarono all’astratto-concreto. Questi ultimi furono anche coloro che si sarebbero aperti all’architettura e al design».
Lei come è finito a occuparsi di design?
«Lasciai l’incerto mondo della pittura, mi iscrissi ad architettura. Dopo la laurea trascorsi un periodo a Milano, durante il quale feci il mio esordio come critico d’arte per Casabella diretta da Rogers, Zanuso, De Carlo. Fu lo stesso Rogers ad affidarmi l’incarico di occuparmi della decima Triennale con l’indicazione di collaborare con gli espositori italiani e stranieri. La mia attrazione per il design è nata da quella esperienza milanese, ma altresì dall’interesse per il Bauhaus».
Un materiale considerato fondamentale per lo sviluppo del design è la plastica. Qui a Napoli c’è perfino un museo, Plart, dedicato alla plastica. Se ne discute molto e la si vive, dopo gli entusiasmi iniziali, come un’amica troppo ingombrante, perfino minacciosa.
«Uno dei tratti inconfondibili della modernità è che quello che da un lato ti dà, dall’altro ti toglie. Ci sono vantaggi e svantaggi. Tutta la storia del progresso oscilla tra queste due situazioni».
Per quanto riguarda la plastica?
«La sua storia è molto recente: parliamo dell’Ottocento come il secolo delle prime sperimentazioni e poi il Novecento, soprattutto la seconda metà, come l’epoca del suo trionfo. Oggi viviamo un periodo di profonda incertezza e ripensamento. Non siamo più così sicuri di un suo utilizzo incondizionato».
Si sa quanta plastica è prodotta ogni anno?
«Gli ultimi dati in mio possesso dicono che sulla terra vengono prodotte 300 milioni di tonnellate di plastica ogni anno. E solo una piccola parte viene riciclata. Le questioni da porsi sono due. La prima è che la plastica non esiste in natura, il che ne fa un materiale ontologicamente interessante. Viviamo in un’epoca che agisce sotto il segno dell’artificio e la plastica ne è l’emblema».
La seconda questione?
«È molto più drammatica: mentre si riesce a star dietro alla nascita degli oggetti di consumo, siamo meno capaci a gestire la loro morte; di qui gli enormi problemi legati allo smaltimento dei rifiuti. La conclusione è abbastanza chiara: per l’umanità è stato più facile inventare che non disfarsi dell’invenzione! Anche se, aggiungerei, non c’è problema tecnologico che non debba e non possa essere risolto impiegando la stessa tecnologia. Oggi ci vorrebbe un altro Giulio Natta in grado di mettere a punto un sistema che elimini tutti gli inconvenienti della plastica».
Non c’è il rischio che l’intera situazione sfugga di mano e che oltre un certo limite sarà difficile trovare una soluzione?
«Alla modernità è connaturata l’idea di rischio, non a caso le società di assicurazioni nascono con essa. Alla domanda: qual è il punto di non ritorno per il pianeta? Rispondo: non lo so. So però che finché la mente umana non è in grado di pensare a un antidoto, la situazione non è poi così drammatica come la si dipinge. Pecco di ottimismo, forse. Ma è sempre stato così: solo quando c’è vera emergenza si trovano le soluzioni. Fino a quando l’uomo non si renderà conto seriamente di cosa sta facendo, difficilmente interverrà per correggere o cambiare rotta».
Cosa significa cambiare rotta?
«Faccio lo storico del design, mi occupo di arte e architettura, non sono un politico né un sociologo di professione. Spetta ai governi fornire risposte convincenti. Ossia trovare un equilibrio tra gli interessi immediati e le prospettive di lunga durata. Ciò che oggi può essere un brutale sacrificio, domani si rivelerà forse una scelta saggia. Chi lo sa. Certo il mondo, penso all’Italia in particolare, era molto diverso prima dell’avvento della plastica».
Vedo sulla sua scrivania una foto che presumo risalga agli anni Quaranta.
«È della metà degli anni Trenta. Ci sono io, a sei anni, i genitori, un fratello più grande: siamo davanti alla bottega di mio padre che era un modista, cioè un fabbricante di cappelli per signore. Se ci fa caso noterà due militari che passano in divisa coloniale. Era il periodo dell’ennesima guerra d’Africa. La plastica, come oggetto di consumo di massa, ancora di là a venire. Gli arredi delle case fino al secondo Dopoguerra erano in tubolari di ferro, in legno o con le imbottiture in stoffa. Quel poco di plastica che si vedeva in giro era fatto di oggetti che sarebbero finiti nel collezionismo».
Che tipo di collezionismo?
«Si parte con la fine dell’Ottocento, cioè con le “plastiche storiche”. Una collezionista riconosciuta e particolarmente autorevole è Maria Pia Incutti, a lei si deve l’idea di far nascere a Napoli un museo della plastica; ho raccontato tutto questo in un libro (Plart, edito da Quodlibet). La vera esplosione di questo tipo di collezionismo si ha con il proliferare dei “mercatini”, ma soprattutto grazie al design e al mondo dell’arte che negli anni Sessanta e Settanta “sdogana” il materiale e se ne serve con grande libertà».
Si può affermare che dietro il binomio arte-plastica ci sia la Pop Art?
«Potrei cavarmela dicendo che la Pop Art è dietro a tutto quello che è accaduto nell’arte contemporanea degli ultimi quarant’anni, dietro anche al suo attuale degrado. Ma non c’è dubbio che la Factory di Andy Warhol abbia usato con grande generosità il materiale plastico. A volte, mi verrebbe da aggiungere, in maniera esplosiva. Ci sono inoltre alcune coincidenze interessanti».
Quali?
«Entrambi, sia pure con finalità diverse, utilizzano il consumo di massa, Warhol, che non a caso nasce come vetrinista, è un “artista commerciale” per il quale non c’è nessuna differenza tra prodotto artistico e prodotto di consumo. Dietro alle scelte operate dalla Pop Art c’è l’idea che tutto deve essere distintivo, immediato, visibile, comprensibile e accessibile. Né più né meno di quel che accade in un centro commerciale. Il linguaggio che potenzia ed esalta tutto questo è quello della pubblicità. Se la plastica ha cambiato il nostro stile di vita, l’arte warholiana ne è stata il riflesso più eclatante e provocatorio».
Con quali conseguenze?
«Non è facile stabilirne il peso. Anche perché la vera ideologia dell’oggetto di plastica è il minimalismo. Il minimalismo ha portato al successo la modernità delle materie plastiche nel campo del design. E lì per la prima volta, come notò Giulio Carlo Argan, si è posto il problema di un’arte che non adorna e consola, che non chiede di essere interpretata, ma di essere solo utilizzata».
Ha conosciuto Warhol?
«Lo incrociai a Napoli in un paio di occasioni. Da Rosiello, una trattoria sulla collina di Posillipo, una volta meta di molti artisti e critici; e poi nella galleria di Lucio Amelio. Ma furono incontri occasionali. Amelio, che fu uno dei vertici della ricerca artistica contemporanea, riuscì a far venire a Napoli, oltre a Warhol, Joseph Beuys. Si stabilì un nesso che ancora oggi stupisce e mostra l’insospettabile ricchezza tra gli anni Cinquanta e Novanta del discorso artistico».
So che lei ha fatto parte del Mac.
«Il Mac (l’acronimo significa Movimento Arte Concreta) fu fondato, verso la fine degli anni Quaranta, da un gruppo di artisti che gravitava su Milano. Vi presero parte tra gli altri Dorazio, Dorfles, Fontana, Munari, Perilli, Soldati, Sottsass e Veronesi. Il gruppo dei napoletani, che poi era sostanzialmente quello che veniva dall’esperienza di Sud, fece la prima mostra del Mac nel 1954 presso la galleria Medea di Mario Mele».
In che senso “arte concreta”?
«Come avevano teorizzato Kandinskij e Max Bill, il vero astratto è il concreto. Nulla è più reale di una linea, di un colore, di una superficie. Con quell’assunto rivisitammo le esperienze del post-cubismo, del costruttivismo, del Bauhaus, facendole interagire con l’architettura e il design. Tutto questo è poi rifluito in una rivista che fondai nel 1964: Op. Cit. Fu una sfida: una rivista di arte visiva affidata esclusivamente a dei testi critici, per lo più composti di citazioni!».
Quasi una provocazione postmoderna.
«Non lo so, a me è sembrata soprattutto una cosa molto intelligente realizzata da qualcuno che forse in quel momento era un po’ fuori di testa. Il postmoderno, invece, sarebbe giunto solo nei tardi anni Settanta, fondandosi su tutt’altre premesse».
Quali?
«Su una tecnologia forte e un pensiero debole. Debole non nel senso in cui, qualche anno dopo, Gianni Vattimo l’avrebbe inteso. Debole, sostengo io, perché incapace di governare la tecnica e i suoi effetti. E qui se vuole torniamo alla plastica e al suo destino».
Nel senso che è stato il materiale per eccellenza utilizzato dal postmoderno?
«Senza, tuttavia, che ci fosse un’intenzione precisa. Voglio dire che la plastica si è rivelata essere il materiale con cui l’oggetto da inerte è diventato ludico. Il kitsch, secondo me, è stato la consacrazione di questa trasformazione: il punto più alto, e non so quanto ironico, dell’esaltazione della cultura di massa, per cui gli oggetti non rispondono più all’idea di unicità e irrepetibilità, ma soggiacciono alla logica dei grandi numeri».
Produzione di massa uguale cultura di massa?
«In un certo senso l’una è indispensabile all’altra. Per chiarire il nesso mi vengono in mente i "vuoti a perdere” e gli “usa e getta” che sfuggono al controllo del design. Alla sua progettazione. Qualunque esperienza fatta in un supermercato ci mette davanti a degli oggetti che sembrano non avere altro destino che l’ammasso dei rifiuti urbani. L’idea che la plastica sia la più adeguata realizzazione dell’usa e getta consente di rivolgere lo sguardo alla cultura autoespressiva di questi anni senza futuro».
Cosa intende?
«Intendo una cosa molto semplice e allarmante, al tempo stesso. Ogni forma di cultura oggi presente sembra destinata a non incidere più e a non lasciar traccia di sé. Vive e prospera nelle “discariche” di internet e della televisione».
Non è una prospettiva eccessivamente apocalittica?
«Non nego il rischio di una lettura parziale. Ma è il mood che va interpretato. Quando le cose diventano morte senza mai morire veramente dobbiamo cominciare a preoccuparci. Viviamo sempre meno tra oggetti familiari e sempre più tra oggetti-zombie che non sono mortali perché in realtà non hanno mai veramente vissuto. Si è parlato dell’“età della plastica” come fosse un’età dell’oro. Oggi ne cogliamo i limiti e, forse, assistiamo al suo tramonto. Che cosa sia una civiltà che distrugge ogni traccia di sé è abbastanza facile da immaginare. Ma è la prima volta, nel corso di tutta la storia umana, che una civiltà rischia di perire a causa dei nemici interni più che esterni».