Recensioni / Sotto la maschera il traduttore

La teoria della traduzione è terreno minato. Walter Benjamin ha dedicato a questo lavoro di mani, testa, sensi e cuore, delle pagine indimenticabili, che non sono però affatto un catalogo di dettati e divieti, piuttosto una figurazione poetica di questa attività: "La traduzione non si trova… all'interno della foresta del linguaggio, ma al di fuori di essa, dirimpetto ad essa, e, senza porvi piede, vi fa entrare l'originale, e ciò in quel solo punto dove l'eco nella propria lingua può rispondere all'opera della lingua straniera". La frase è in epigrafe a una serie di saggi di Antoine Berman, La traduzione e la lettera o l'albergo della lontananza (recentemente pubblicati da Quodlibet a Macerata) il cui filo conduttore è il rifiuto della dicotomia fra traduzione "letterale" e traduzione "letteraria": un luogo comune, e in quanto tale inutile. Questa distinzione non corrisponde infatti a ciò che il traduttore avverte, quando è al lavoro su un testo: la questione della fedeltà o del tradimento dell'"opera" è ben più complessa della semplice adesione al tessuto sintattico. Si può essere fedeli tradendo, e si tradisce restando fedeli: proprio come nella vita. Già, entrambe le situazioni - la vita e il tradurre - esigono un empirismo costante ma vigile, e la capacità di mobilitare l'intuito al momento giusto, e un grande spirito di adattamento. Con una beffarda alzata di spalle, rifiutano ogni dogmatismo, ogni preconcetto. Come la vita, anche la traduzione sfodera un'inesauribile capacità di stupire. "L'opera del traduttore è dunque, in quest'ordine di idee, un incessante cambiamento di prospettiva dettato dalla realtà del testo, e il buon traduttore è un trasformista capace di vestire, alla bisogna, la maschera del rigoroso filologo o quella dell'intemperante interprete", scrive Ariel Rathaus nella sua "Nota del Traduttore" a una raccolta di poesie di Meir Wieseltier intitolata Lontano dall'Alzabandiera e appena pubblicata in italiano, con la prefazione di Enrico Testa, dalle Edizioni San Marco dei Giustiniani nell'ambito del progetto della Regione Liguria "Il mare che unisce" - I poeti della Riva Sud del Mediterraneo (per informazioni: edizionisanmarco@libero.it). Wieseltier è un poeta israeliano, ma è nato a Mosca nel 1940. Approdato bambino a Tel Aviv, è stata figura centrale in un movimento letterario di "erosione" del passato. E' anche un grande traduttore dall'inglese verso l'ebraico, a cui ha portato fra gli altri Shakespeare e Virginia Woolf. La sua è una poesia di forte impatto: "Prendi questi versi, e non leggere / usa a questo libro violenza: / sputaci sopra, schiaccialo / pizzicalo, prendilo a calci… / Questo libro è un cencio di carta / ha lettere come mosche, e tu / cencio di carne, che mangi polvere e grondi sangue, / lo guardi gli occhi vuoti in dormiveglia". Eppure, nella rottura con la tradizione, il poeta coglie quest'ultima e la strizza evocando fra le righe, aprendo squarci di un lirismo triste, più che arrabbiato. Rathaus, con il suo consueto acume di profondo conoscitore dei due fronti, l'italiano e l'ebraico, asseconda il testo originale e lo piega di volta in volta, guidato da quei "criteri pragmatici" che sono il requisito primario, il bagaglio indispensabile di chi s'accinge a tradurre un testo, e più che mai un rigo di poesia. Il risultato è un libro che a tratti affiora lento allo sguardo a tratti ti precipita con sé in fondo al mare, un po' come quel messaggio "Sigillato in una bottiglia" che dà il titolo a una poesia, e che va su e giù per "Questa sponda orientale del Mediterraneo".

elena.loewenthal@lastampa.it TERRE PROMESSE