Recensioni / Recensione di Identità sotto chiave

Lo studio di Angela Albanese rappresenta un’indagine rigorosa ed esaustiva su uno dei casi più eclatanti del teatro italiano contemporaneo, quello cioè di Saverio La Ruina. Sono numerose le traiettorie che attraversano questa identità sotto chiave e tutte fatalmente sospinte, per effetto delle offese ricevute, da una feconda ferita incapace di rimarginarsi. Su tutte, però, una s’impone con maggiore determinazione e il titolo vi ammicca quasi, instillando il ricordo di Dolore sotto chiave di eduardiana memoria. Eduardo De Filippo è il vero numen di questa ricostruzione sapiente dell’itinerario drammaturgico di La Ruina. L’Albanese ha, dalla sua parte, con il work in progress dell’autore in questione, una consuetudine sorvegliata, rispondente ai dettami meldolesiani circa l’efficacia di una promiscuità con il lavoro attoriale ai fini di una sua interpretazione, e, in aggiunta, possiede una familiarità con il tessuto geocritico da cui proviene l’esperienza di La Ruina. Tutti vantaggi, indubbiamente, se, come giustamente sostiene la studiosa nella sua Premessa, il teatro pretende l’assenza di mediazioni e si contrappone, pertanto, al potere anestetico e obnubilante dei media. L’esame in questione può inscriversi a buon diritto nel novero di un impegno generoso, e riuscito, nel prospettare una genealogia drammaturgica in cui l’opera di La Ruina sia non monade affascinante, ma episodio cruciale e storicizzabile di una florida fenomenologia recente. L’articolo di Renato Palazzi del 3 dicembre 2006, Il sipario s’alza a Sud («Il Sole 24 ore») spesso citato nelle ricognizioni sulla drammaturgia italiana recente (cfr. Dario Tomasello, La drammaturgia italiana contemporanea. Da Pirandello al futuro, Carocci, Roma, 2016), costituisce un riferimento utile per inquadrare la produzione di La Ruina in una fioritura specificamente meridionale, destinata ad avere i suoi epicentri principali a Napoli e nel multiforme caleidoscopio della Sicilia. In mezzo, la Calabria che, come vedremo a breve, fa storia, problematica, a sé. Da Napoli, La Ruina, formatosi attraverso l’esempio del napoletano d’adozione ed eduardiano di ritorno Leo De Berardinis, recepisce, al di là dell’esempio del maggiore dei De Filippo, anche quello di Annibale Ruccello. L’Albanese rileva come il modello transgender ruccelliano costituisca, più che una silhouette incombente sulla costruzione delle protagoniste di Dissonorata (2006) e La Borto (2009), Pasqualina e Vittoria, il perno di un’estetica trash che, dalla prova più acerba di De-Viados (1998), si proietta ad ampio spettro sulla poetica del drammaturgo maturo. Secondo le parole dello stesso La Ruina, si accampa un orizzonte fatto di «costruzioni di pessimo gusto […] architetture sbilenche che mostrano i blocchi di cemento di cui sono fatte […] La Calabria è un cocktail indecifrabile […] arcaismi resistenti e passiva accettazione della modernità, figli e padri che appartengono a mondi diversi, squallori edilizi e resti magnogreci, degrado e natura mozzafiato; asciuttezza verbale di calabresi sospettosi; ’ndrangheta e infinito senso dell’ospitalità» (p. 21). È proprio grazie a queste contraddizioni che una terra difficile, tradizionalmente senza teatro (eccezion fatta per sporadici quanto mirabili esempi tardo-novecenteschi: dal Teatro dell’Acquario di Cosenza alla fondazione dell’Accademia di Palmi), può offrire dichiarazioni di poetica a chi sappia cogliere quelle contraddizioni, trasformandole magari in una progettualità non solo legata alla propria creatività autoriale, ma anche all’ambizioso sogno di «Primavera dei teatri», festival che dal 1999, grazie alla Compagnia di La Ruina, Scena Verticale (e dunque grazie a Settimio Pisano e Dario De Luca), è diventato un punto di riferimento imprescindibile. L’indagine della Albanese si concentra poi con molta perizia sulle costanti diacroniche dell’inventio linguistica e stilistica di La Ruina, modulata dall’incantamento delicato di un dialetto calabrolucano, tramato di chiasmi, metafore e ripetizioni formulari che conferiscono alle rievocazioni delle donne martoriate di Dissonorata e La Borto un ritmo lieve, destinato più al «pentagramma» che al copione. «L’altissimo gradiente poetico e lirico» (p. 99) torna in Italianesi (2011) in cui la virilità del protagonista, Tonino Cantisani, italiano d’Albania, cresciuto in un campo di prigionia durante il regime comunista di Oxha, viene trasfigurata dalla studiosa nel profilo omerico di uno straziante Telemaco che, nel padre perduto, cerca una Patria destinata a consegnarlo, per sempre, ad uno scacco frustrante. La «narrazione scenica monologante» (p. 35) che predilige la dimensione drammatica a quella epica, consueta nel teatro di narrazione, ritorna nel protagonista di Masculu e fiammina (2016), capace di sfuggire alla profilatura più didascalica, grazie al fatto che «La Ruina sceglie non la via della rivendicazione aggressiva o dell’astio, ma la via della tenerezza, della pacata e semplice ironia da anziano di paese per restituire il ritratto umano dell’omosessuale Peppino, per testimoniare la vita offesa» (p. 143). L’unica eccezione a questa forma espressiva è Polvere. Dialogo tra uomo e donna (2015), affondo lutulento e audace nei dintorni del femminicidio, costruito a partire dalla violenza inesorabile e tenace del linguaggio come macchina persecutoria, capace al contempo di minare la dignità della vittima e di rivelare le intime lacerazioni del carnefice. Il saggio della Albanese costituisce una prova di sicura maturità interpretativa che, da un lato, ci conferma la necessità di considerare il teatro contemporaneo come terreno probante e ineludibile della cultura contemporanea italiana e dall’altro ribadisce la presenza confortante di una generazione intellettuale in grado di affrontare questo lavoro di scavo, in un corpo a corpo la cui scientificità dipende non da asettico algore, ma da una confidenza vibrante e affettuosa.