Recensioni / La traccia nascosta della musica nera

Per la black music la prima metà del 2018 è stata caratterizzata principalmente da due eventi: il conferimento del Premio Pulitzer a Kendrìck Lamar e l’uscita del video This Is America di Childish Gambino. Al di là della vasta risonanza, entrambe queste circostanze offrono interessanti spunti per raccontare come (o forse dovremmo prima ancora anteporre un se) le musiche afroamericane – il plurale non è solo un’eleganza terminologica – rilevino e si muovano oggi nel mondo globalizzato. Sul Pulitzer a Lamar si è detto e scritto molto: posto che è probabile che alcune delle ragioni dell’attenzione a un genere come l’hip-hop – che rispetto agli abituali ambiti in cui il Pulitzer per la musica si muove, ha per la prima volta una dichiarata matrice popular e commerciale – risiedano più nei recessi delle strategie di politica culturale che non in una, ovviamente impossibile, “valutazione” artistica dai connotati astratti e universalistici, si tratta certamente di un riconoscimento che va a un artista di notevole spessore, capace di trattare in modo efficacemente articolato una serie di tematiche che ruotano attorno alle contraddizioni della condizione umana e delle dinamiche sociali. La fama, il denaro, l’alienazione nell’America di inizio Millennio (e ancor più in quella di Trump) sono un filo che lega un lavoro compositivamente sfaccettato, in cui piovono come asteroidi elementi lessicali della più svariata provenienza. L’alterità, la mobilità culturale e linguistica, pur mantenendo una voce riconoscibile e fortissima, sono elementi che legano Lamar a due suoi più o meno recenti predecessori nel Pulitzer, due giganti del linguaggio afroamericano più legato al jazz come Ornette Coleman e Henry Threadgill. Sia Coleman (che ha vinto il Pulitzer nel 2007 e che è mancato giusto tre anni fa) che Threadgill, che il Pulitzer lo ha vinto nel 2016, sono artisti che a partire dalle pratiche del lessico jazzistico hanno costruito scenari non solo di struggente bellezza, ma anche di essenziale rilevanza dal punto di vista dialettico, mettendo in atto una straordinaria serie di strategie narrative a più piani. La “comunicazione non verbale” è fortissima nel loro lavoro, investe corpo e anima ed è sostenuta da geniali intuizioni formali: musica che è una pratica, una pratica da condividere (in questo senso l’agire musicale di queste personalità è sempre fortemente politico, senza nemmeno doverlo dichiarare) e che sposta continuamente l’orizzonte della relazionalità, partendo da una prospettiva minoritaria e fornendo ipotesi di comunità che non possono non suonare significative anche al di fuori dell’ambito black. Per i lettori e ascoltatori italiani, questo 2018 è anche l’anno della traduzione italiana del libro Grande musica nera – Storia dell’Art Ensemble Of Chicago di Paul Steinbeck (merito di Quodlibet), che non solo racconta l’evoluzione artistica dello storico gruppo di Chicago, ma riesce anche a disegnare in modo semplice ma efficace cinquant’anni di storia sociale della musica nera tra America e Europa. È una lettura che consiglio anche a chi non fosse particolarmente addentro a quei suoni, non solo perché stare dentro quei suoni è fantastico e significativo, ma anche per prendere familiarità con un affascinante universo di pratiche in grado di imprimere un segno alla storia sociale delle musiche nere tra Stati Uniti e Europa. This is Our Music urlava Ornette a chi metteva in dubbio la legittimità artistico/espressiva del suo jazz. This is America urla Childish Gambino e il video del suo pezzo è un eccellente esempio di come oggi la storica capacità delle arti afro-americane di metabolizzare e rileggere la propria vicenda continui a trovare esiti significativi. E li trova in un’America di Trump in cui i neri devono comunque fare i conti con la violenza e con la seduzione dei valori della società bianca. Trump? Ohibò non sarà mica lo stesso Trump cui un altro Re-Mida dell’hip-hop come Kanye West continua a dedicare seri apprezzamenti su Twitter, perdendo rapidamente più followers di quanto sia tecnicamente possibile perdere? E non è un altro blasonato Pulitzer nero, il trombettista Wynton Marsalis, quello che in una recente intervista ha sparato a zero contro l’hip-hop, reo a suo avviso di descrivere i neri in modo svilente? Per Marsalis l’hip-hop è peggio della statua del Generale Lee, affermazione che non può che richiamare quella del celebre presentatore televisivo (bianco e baffuto come un divo erotico polacco anni Settanta) Geraldo Rivera, che sentenziava che «l’hip-hop avesse fatto negli ultimi anni più danni ai giovani Africano-Americani del razzismo». Marsalis ha detto questo poche settimane fa, Rivera nel 2015, in tempo perché il nostro Kendrìck Lamar campionasse la frase incriminata e la inserisse nel disco Damn, quello del Pulitzer! Mica male, vero? Ma sì, perché in fondo la complessità accelerata e vagamente inebriante delle società globalizzate è un turbine in grado di rovesciare in ogni attimo le aspettative: nel video di Childish Gambino il quieto coro gospel viene spazzato via da una mitragliata fatale; si balla ma un istante dopo si fugge dalla Polizia. Non c’è innocenza, i modelli di consumo mondiali sono ormai entrati fin dentro la pelle degli africano americani, ma le musiche nere portano con sé, come una pasta madre, questo germe dello spostarsi, dell’essere altro. Forse per questo non smettono di esercitare una forza quasi magnetica nel cuore della cultura di oggi. Con o senza Pulitzer!

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