Recensioni / Simone Weil e il Dio che abdica al divino

Simone Weil, nata a Parigi in una famiglia dell'alta borghesia ebraica nel 1909 e morta a soli trentaquattro anni in Inghilterra, ad Ashford, è considerata una delle figure più fascinose della cultura del Novecento. Anche se i suoi libri da noi uscirono, sino alle iniziative dell'editore Adelphi, quasi con la sordina, giacché non fu autrice collocabile tra quelle politicamente gradite. La tragedia in tre atti Venezia salva, nella versione di Cristina Campo, vedeva la luce da Morcelliana nel 1963 ma se ne accorsero anime isolate. Poi la Weil entrò nel catalogo di Borla, casa editrice diretta dal 1966 al 1969 da Alfredo Cattabiani, che avviò la collana Documenti di cultura moderna, curata da Augusto Del Noce ed Elémire Zolla. In essa nel 1967 usci un testo rilevante di Simone, La Grecia e le intuizioni precristiane.
Tuttavia, i nomi citati appartenevano a una cultura non particolarmente gradita; anzi, per taluni si potevano considerare dei reazionari. La Weil pagò lo scotto e gli "impegnati" sentirono crescere il loro disagio quando nacque la Rusconi Libri, alla direzione della quale nel 1969 fu chiamato Cattabiani. Ancora lui! La Weil entrava nel catalogo con titoli come Attesa di Dio (1972), già pubblicato da Casini nel 1954, ma che in quel momento assumeva altri significati. Aveva fatto l'operaia? Diviso il suo stipendio con i disoccupati? Era stata sindacalista e collaboratrice con riviste di sinistra? Si preferì dimenticare tutto questo e anche altro; piuttosto destava sospetto il suo misticismo, l'amore per filosofie allora guardate in cagnesco o le religioni orientali. I Quaderni (tradotti da Adelphi) sono gremiti di spunti religiosi che richiamano tesi della Cabbala o degli gnostici.
Il discorso sulla fortuna in Italia di Simone Weil riflette partigianerie e piccolezze; quel poco accennato desidera rendere omaggio, dopo non poche incomprensioni, a una figura di primaria grandezza. A essa Giancarlo Gaeta, massimo esperto e tra i migliori curatori delle sue opere, ha ora dedicato un saggio: Leggere Simone Weil. E a proposito di Venezia salva egli scrive che può essere considerata l'equivalente moderno dell'Antigone di Sofocle: due tragedie del potere, «e in quanto tali senza via d'uscita».
Gaeta accompagna il lettore nelle molteplici situazioni vissute dalla scrittrice. Dai banchi di scuola sino all'influsso di un pensatore come Alain, dagli ideali per una società libera al radicamento nella politica questo conoscitore della Weil documenta un'esistenza densissima con la quale lei cercò di «far si che il soprannaturale possa circolare nel tessuto sociale in modo da nutrire i rapporti umani e le espressioni del pensiero in tutte le sue forme» (p. 249).
Storico del cristianesimo, Gaeta ha posto in luce il desiderio della Weil di essere riconosciuta dalla Chiesa come credente, ma «senza aderirvi». E informa puntualmente sui tormentati colloqui che si svolsero con amici religiosi, il problema del battesimo, altre questioni "sulla soglia della Chiesa".
Chi scrive, più semplicemente, ha sempre subito il fascino del concetto di "decreazione", presente nell'ultima Weil. È un paradigma cosmologico e morale con cui poteva spiegare molte contraddizioni del mondo reale. Accogliere la "decreazione" diventa conseguenza inevitabile dell'atto creativo, inteso come una sorta di abbandono. Scrive la Weil: «Creando ciò che è altro da Lui, Dio l'ha necessariamente abbandonato. La creazione è abdicazione». E ancora, con un affondo: «Dio si è svuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine dell'atto che ci ha creati».