Recensioni / Franco Fortini: dialettica e speranza

Un intellettuale fuori dagli schemi: poeta, saggista, traduttore. Il centenario della nascita di Franco Fortini è l’occasione per riscoprire una personalità scomoda che ha segnato il Novecento. Fortini pratica un’arte maieutica, di ricerca, che relativizza quanto potrebbe apparire inequivocabile e definitivo. Quel sentimento dell’inappagato e del provvisorio, che attraversa la sua opera, è anche il nostro. Nato Franco Lattes a Firenze, il 10 settembre 1917, ebreo, cambiò il cognome a causa delle leggi razziali fasciste. Protagonista della rivista Politecnico, fondata da Elio Vittorini nel 1945, lavorò all’Olivetti, tra gli altri con Giovanni Giudici, e insegnò Storia della critica letteraria all’Università di Siena dal 1971 al 1989. Prima della sua morte, nel novembre 1994, Fortini donò all’Università di Siena il suo archivio privato. Visitando l’archivio che comprende, oltre a scritti autografi di poesie e saggi, circa 5000 lettere, ci si rende conto della vastità di scambi intellettuali intrecciati con le maggiori figure della cultura europea del suo tempo. Oggi sono soprattutto le rime a parlarci. I saggi appaiono un documento storico di un’era ormai conclusa, in cui la speranza della rivoluzione fu per molti una scelta di vita. La lettura di Kierkegaard e degli esistenzialisti francesi (Merleau-Ponty e Sartre, in primis) gli consente di sviluppare un marxismo critico, coraggioso nel denunciare la brutalità delle purghe sovietiche. Grazie all’incontro con Bertolt Brecht, la poesia di Fortini riflette le dinamiche storico-sociali che trascendono il destino del singolo. Francesco Diaco, dottore di ricerca all’Università di Siena, nel saggio Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini (Quodlibet, pp. 382, euro 24), spiega che il poeta toscano «vuole evitare sia l’organicità di chi “suona il piffero” al partito, quanto l’umanesimo generico e connivente di chi coltiva il culto delle lettere» . Poeta politico, ha sempre evitato il mero contenutismo e gli schemi edificanti del socialismo reale: «utilizza il linguaggio della tradizione per alludere al futuro» , rimarca Diaco. Da “fiorentino in esilio” , il suo rapporto con la città natale fu conflittuale. A Siena trovò invece un ambiente accogliente, anche fuori dalle frequentazioni universitarie. Di Siena abbozzò schizzi e disegni, lì strinse amicizie che durarono tutta la vita. Nella poesia La città nemica (compresa nella raccolta Foglio di via, edita da Einaudi nel 1946) Firenze diventa l’emblema di un passato estetico e paralizzante: le sue “pietre” ripetono che «Tutto è inutile sempre» . Più tardi, nei versi di In una strada di Firenze (datati 1947-54), fa nuovamente i conti con la sua città: la patria è vagheggiata ma abbandonata. L’esilio è in parte subito e in parte scelto: «Quella città non la posso dimenticare/ anche se so che non posso tornare» . Nella lirica Piazza Tasso, accanto al volto aristocratico, si scorge una Firenze sporca e annerita, in cui vive un sottoproletariato malato. Sono i luoghi descritti da Vasco Pratolini in Cronache di poveri amanti (1946), dove il contesto di povertà non consente progresso né regresso, ma solo passività o rivolta. Per il centenario, convegni di studio sono in programma all’Università di Siena, ma anche a Roma, Varsavia, Milano, Torino e Padova.