Recensioni / Quei due erano così idioti che sui social sarebbero eroi

Bouvard e Pécuchet si interrompe ad un certo punto del capitolo dieci per la morte improvvisa di Flaubert, la mattina dell'8 maggio 1880, emorragia cerebrale, hanno diagnosticato. Ma tra le sue tante carte rimaste, migliaia di pagine di abbozzi, riassunti, schemi, argomenti, è delineato il resto non ancora scritto del capitolo con il finale, che qui è stato riportato in conclusione del romanzo, per far capire come la vicenda andava a finire. I due compari, contenti e d'accordo, si fanno fare una doppia scrivania e si metteranno a copiare. A fare i copisti come una volta in ufficio? Non esattamente. Secondo il progetto totale di Flaubert qui finiva il primo volume; doveva seguire il secondo sulla nuova impresa dei due copisti che copiano, che cioè con penna, carta e calamaio, giungono finalmente all'attività più consona alla loro natura. In tutto il romanzo fin qui raccontato cos'erano stati Bouvard e Pécuchet? Due incapaci che si erano applicati via via a tutte le scienze e alle connesse attività, in base solo a letture e teorie lette, con conseguenze all'atto pratico sempre fallimentari; la loro indomabile stupidità è data da questa loro scienza libresca che si scontra con le cose, perché ogni teoria astratta applicata alla lettera, cioè copiata ciecamente senza esperienza, come una ricetta, non funziona o funziona male. Anche se ciascuno dei due, per la diversa fisiologia e il conseguente diverso carattere, parteggia sempre per la posizione teorica contrapposta all'altro compare, è sempre e comunque su entrambi i lati un fallimento. Flaubert, riprendendo un bellissimo fraseologismo della lingua francese, li definisce due «onischi» (vivre comme un cloporte, vivere come un onisco), quegli animaletti che stanno nascosti sotto i vasi, detti anche porcellini di terra, che di fronte a qualunque disturbo o pericolo sanno solo raggomitolarsi, chiudersi in una pallottolina, un po' insignificanti come loro due, che si arrotolano dentro ogni teoria libresca, e il mondo esterno che è più forte e indifferente alla sfera scientifica, li smentisce e li schiaccia, come schiaccerebbe senza scrupoli e difficoltà gli onischi. Le teorie prese da altri e copiate rotolano sul mondo come corpi sferici ed estranei, in balia delle forze naturali impreviste.
Percorse tutte le strade e tutti i disastri, alla fine il Bouvard e il Pécuchet si metteranno letteralmente a copiare; e qui doveva iniziare il secondo volume, di cui qualcosa si sa, per fortuna. Avrebbero copiato tutto il copiabile. E se nella prima parte, quella già scritta, le teorie erano riassunte in breve, sinteticamente, entusiasticamente, perché potessero sguazzarci in mezzo, e trarre la conclusione che loro forse un po' erano due idioti, ma anche le teorie non erano da meno; nella seconda avrebbero solo trascritto fedelmente la documentazione di questa più vasta idiozia umana; Flaubert nel corso degli anni aveva accumulato i documenti che avrebbero dovuto trascrivere e copiare, aveva messo insieme un materiale ingente di cose sparse, di varia origine, che tuttora si conservano nella Biblioteca municipale di Rouen; nell'insieme il materiale forma quel vasto sciocchezzaio (il Sottisier) fatto di citazioni che provano l'inclinazione incontenibile dell'umanità all'idiozia, estesa e onnipresente. Ma cosa più esattamente i due avrebbero fatto e copiato? e come si sarebbe sviluppato il seguito del romanzo? Copiare è salvare; giacché l'idiozia nel mondo è sottovalutata e tende ad andare persa. Nelle carte preparatorie di Flaubert c'è una specie di piano, appunti per una specie di piano odi indice, che gli studiosi hanno successivamente riportato in luce e a pezzi e bocconi stampato. Copiano prima di tutto quello che capita loro in mano, fogli stampati trovati per terra, scritte su pacchetti vuoti per il tabacco, giornali vecchi comprati a peso in una cartiera, lettere buttate via, manifesti e altre robe per loro importanti da conservare; le note ad esempio nei libri degli autori letti nella prima parte del romanzo; e su un grande registro fanno una specie di classificazione di ciò che val la pena e che dà piacere copiare, e si accumulano gli esempi: campioni di tutti gli stili linguistici, agricolo, medico, teologico, classico, stile rivoluzionario, romantico, perifrasi, con pagine e pagine di esempi illustri e oscuri; e poi crimini e buone azioni in parallelo, della chiesa e della monarchia; articoli ultra-radicali, articoli ultra-conservatori ad esempio sulla questione delle sepolture civili, articoli sulla vita chic di Parigi, pezzi poetici trovati nel pattume, giudizi contraddittori sulla storia contemporanea, critiche d'arte (che come stupidità spesso eccellono), amenità dei giornali sulle cose serie e seriosità sulle cose amene; indulgenza su quel che vale poco e severità per cose eccellenti; teorie su come avere successo; paragoni insulsi tra autori incomparabili. Poi perle di idiozia tale da lasciare ammirati, e che rientrano quindi nella classe delle pure bellezze.
I due trovano ogni tanto difficoltà nel classificare i brani, sono allora casi di coscienza che vengono discussi; però non demordono, e continua la copiatura. Intanto va avanti la vita di paese, Marescot ha lasciato Chavignolles per Le Havre, s'è messo a fare speculazioni ed è diventato notaio a Parigi; Mélie va a servizio da Beljambe, lo sposa, e quando lui muore sposa Gorgu e spadroneggia alla locanda, e così via.
Un bel giorno i due copisti trovano gettata tra le carte da macero la minuta di una lettera del dottor Vaucorbeil al prefetto; il prefetto aveva chiesto al dottore se Bouvard e Pécuchet non erano per caso dei pazzi pericolosi, e il dottore risponde in questa lunga lettera confidenziale che erano solo due imbecilli inoffensivi, cui seguiva il resoconto dettagliato del loro operato e delle loro fallimentari imprese scientifiche, che di fatto doveva essere il riassunto e il commento di tutta la prima parte del romanzo, ri-raccontato con diverso occhio critico; e così i due protagonisti avrebbero letto di se stessi e delle loro imprese, e preso atto della loro indefessa imbecillità. Potevano indignarsi. Cosa facciamo? si dicono i due di fronte a questa diagnosi demolitoria. Potevano stracciarla. No, niente ripensamenti, copiamo! Bisognava andare avanti a riempire le pagine e completare il grande monumento, la grande opera che per loro sarebbe stato lo Sciocchezzaio. Dove doveva valere l'uguaglianza di tutto, del bene e del male, del bello e del brutto, dell'insignificante e del rilevante, e il rilevante era quello statistico; solo i fenomeni che accadono sono manifestazioni della verità. Il resto è chiacchiera. Il secondo libro doveva finire con l'immagine dei due personaggi chini sullo scrittoio, a copiare.