Recensioni / Dietro all'italica modernità

Leggere questa raccolta di saggi di Daniele Balicco, scritti negli ultimi dieci anni, è come respirare una boccata d'aria. Finalmente una riflessione sui «violenti cambiamenti strutturali» del nostro Paese che si mette tendenziosamente in una prospettiva emancipativa (la «liberazione del soggetto come autoformazione critica») e al tempo stesso evita incrostazioni ideologiche e etichette autopromozionali come l'ineffabile Italian Thought.
Si tratta poi dell'esame di coscienza di un intellettuale che appartiene alla generazione stretta fra «ultraspecialismo accademico» e «provincialismo cosmopolita», e alle prese con un lavoro di scrittura «privo di riconoscimento sociale, di remunerazione economica e di radicamento politico». Il libro si articola in tre distinte sezioni: Teoria, Modelli, e Modernità Italiana.
Nella prima scopriamo che la lettura «surrealista» di Nietzsche ha prodotto una «antropologia gioiosamente espressiva e ribelle» poi tradotta in due settori tra loro distinti: il mercato dell'arte contemporanea (dove il soggetto espressivo è totalmente libero da vincoli e tradizioni culturali) e la creativa, irresponsabile élite finanziaria con la sua irrelata volontà di potenza («scatenamento senza freni del capitale»). In particolare sul surrealismo Balicco riprende la lettura fortiniana: la pseudoliberazione dalla realtà borghese attraverso droga ed erotismo ha trionfato nei nuovi media di massa, nello spettacolo e nella pubblicità. Specie la corrente nera del surrealismo, con la sua antropologia signorile e trasgressiva, e «l'estasi dell'arbitrio, del male e della violenza» (si pensi al video di Abu Ghraib). Qui uno degli "errori" del movimento del '77: non riconoscere nell'apologia dell'informe e del vitalismo una dimensione disgregativa propria della modernità.
Fortini è un intellettuale rimosso anche perché sono scomparsi i suoi destinatari (o forse solo momentaneamente in ombra: una comunità politica che lotta per una trasformazione radicale). Ma certo nel suo insistere sulla poesia classica come poesia della rivoluzione, poiché anticipa un futuro liberato, troviamo l'idea di «uomo integrale» (altro che apologia di pratiche borderline e schizofrenie!). Di Asor Rosa l'autore sottolinea la «energia selvaggia» di Scrittori e popolo, quasi un «pamphlet di guerra» a metà anni '6o. Jameson, critico marxista «fuori tempo massimo», ci aiuta a orientarci nel postmoderno ma il suo materialismo storico ha qualcosa dilegnoso. Edward Said ha suggerito l'arte musicale del contrappunto come metafora di una convivenza armonica dell'eterogeneo (soltanto che pur rimpiangendo l'assenza di un Mandela palestinese poi demonizza gli accordi di Oslo, che invece furono un concreto tentativo di mediazione).
Infine, la parte più spericolata e originale del libro. Per Balicco studiare il Made in Italy (terzo brand nel mondo, sinonimo di prodotti belli e di alta qualità) significa confrontarsi con una idea di modernità italiana dissonante da quella autodenigratoria degli studi umanistici, e alternativa a quella americana: modernità come «godibilità del presente», declinata nei diversi settori di moda, design e agroalimentare, e nelle forme elementari del quotidiano (mangiare, vestirsi, abitare). Una modernità «neoartigianale, elegante ed edonista», che punta le sue carte «sui piaceri della vita, sull'intelligenza del corpo, sull'essere umano come misura senziente e proporzione armonica...». Ho detto della spericolatezza dell'autore. Sappiamo infatti che quegli aspetti di modernità antimoderna convivono con trista indifferenza al bene comune, familismo amorale, assenza di senso civico, predominio di lobby e corporazioni, irresponsabilità del discorso pubblico, etc. Eppure è proprio l'arte che dovrebbe rappresentare questa ambigua convivenza. Infatti qui si indica la Grande bellezza di Sorrentino come affresco della irriducibile ambivalenza, della «godibile ripugnanza del nostro modo di essere moderni». Non entro nel merito del giudizio estetico sul film (che ha diviso famiglie e incrinato amicizie!). Bisognerebbe però interrogarsi su come mai non c'è un romanzo che abbia avuto questa scintillante capacità simbolica e questa originalità di narrazione ondivaga. I nostri narratori si sono avvitati su una troppo esile autofiction, scambiando ogni personale pulsione come sintomo dell'epoca? O si sono consegnati alla collaudata gabbia del neonoir? O si sono autodistrutti nella coazione nazionale al cabaret?