Recensioni / L'inferno alle calcagna

Narrare l'inferno è un'esigenza esistenziale e artistica e nel farlo non si può prescindere dalla realtà e dalla tradizione letteraria. Nella rappresentazione un dato ricorrente è il dialogo: c'è bisogno di parlare con i dannati, di confrontarsi con le loro voci, forse per cercare di capire l'universo che viviamo, in apparenza separato dagli inferi ma in realtà parte integrante. Il paradiso non si sa dove sia, l'inferno sembra potenzialmente essere in ogni luogo.
Con Cani dell'inferno Daniele Benati si inserisce in questa straordinaria scia, che nell'essenza coincide con la letteratura stessa. L'inferno che racconta prende le mosse da una celebre canzone di Robert Johnson (Hellhound on My Trail, «C'è un cane dell'inferno alle mie calcagna») e gli amati modelli letterari sono tanti, da Kafka a Beckett, da Thomas Bernhard a Flann O'Brien (di cui Benati è stato eccellente traduttore).
L'ambientazione è americana, allegorica e iperrealistica; precisa e localizzata, nello stesso tempo universale, fisica e metafisica. La città è Boston, che anche nella realtà è una città "doppia", Boston da unlato Cambridge dall'altro del Charles River, dove si trovano l'università di Harvard e il Mit, in cui Benati ha insegnato alcuni anni. Acque, ponti, strade, «selve oscure di palazzi e grattacieli», scale e scantinati, McDonald's, appartamenti e alberghi, aule e uffici universitari, cessi e camere da letto, consolati e ambasciate, ogni spazio sembra convivere con gli altri al numero 3847 di Mystic Avenue. Allo stesso modo i personaggi, i cui nomi cominciano quasi tutti per P, sembrano essere l'uno e l'altro, come se non fossero persone ma voci che riempiono l'aria e la mente, in un incessante susseguirsi di azioni, riflessioni e allucinazioni. Lacerazioni interiori che ricordano i protagonisti "doppi" di Poe e di Stevenson, i multipli di Pirandello e di Joyce, di Gadda e di Malerba. Il mondo è un perpetuo insopportabile frastuono di lamenti e di rumori, in cui non esistono pause di pace e si vive dantescamente in disperata rincorsa, chi per fuggire chi per inseguire. Si è in ogni momento sull'orlo della disperazione, con assilli persecutori, invidie rancorose, ansie sessuali, fantasie suicide.
Il libro di Benati, popolato di barboni e di professori universitari (che potrebbero essere le due facce dello stesso giano bifronte) racconta come pochi altri l'angoscia, in un'ottica insieme storica (il nostro tempo, le nostre metropoli) e assoluta (la vita in sé, sempre e ovunque). Sono pagine di grande intensità, un romanzo che scorre tragico e denso nella prospettiva di un poema atroce e funesto. È una delle più forti descrizioni e interpretazioni degli Stati Uniti, paesaggio urbano e interiorizzazione della società, il degrado che annichilisce il sogno, un 1984 non della solitudine ma della folla, specchio di sinistra reciprocità (si veda al proposito l'antologia Storie di solitari americani curata con Gianni Celati nel 2006).
Stampato la prima volta nel 2004, il romanzo è ora riproposto con leggere varianti nella collana «Compagnia Extra» Quodlibet diretta da Ermanno Cavazzoni e Jean Talon, così come il precedente Silenzio in Emilia (uscito nel 1997 e ripubblicato nel 2009). Benati è uno degli autori più profondi e originali del passaggio di fine secolo, capace di reiventare la realtà con la finzione, di denudare le falsità di una società opulenta e mediocre, concentrato sulla complessità irriducibile dell'individuo. Lo stile è a un tempo comico e drammatico, come afferma il più noto dei personaggi da lui creati, Learco Pignagnoli, dai primi anni duemila oggetto di ininterrotto culto letterario e teatrale: «Se non c'è niente da ridere vuol dire che non c'è niente di tragico, e se non c'è niente di tragico, che valore vuoi che abbia» (Opere complete di Learco Pignagnoli, 2006). In Cani dell'inferno la fertile vena aforistica («Era il fracasso di chi si annoia») si coniuga con affettuosi ritratti, tra cui spicca l'omaggio alla «perizia linguistica» di Pascoli «che non ha paragoni nel mondo». Per Benati inferno ed eternità combaciano nella ripetizione: «uno crede di andare avanti mentre invece torna sempre nello stesso posto - dei cani randagi neri gli stanno alle calcagna e due tipi con il cappello in testa appaiono all'improvviso davanti a lui. Sono seduti su una sedia e sembrano addormentati ma poi hanno un sobbalzo e tutto ricomincia da capo».