Recensioni / Gli anniversari

A quarant'anni di distanza, il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro sono stati ricordati come il punto più alto raggiunto dal terrorismo italiano, l'apice dell'attacco al cuore dello Stato, dopo il quale cominciarono il declino e la progressiva sconfitta. Ma si tratta di una visione parziale, forse rassicurante, che tuttavia non spiega un aspetto più inquietante del fenomeno nel suo complesso: dopo l'uccisione del presidente della Democrazia cristiana la lotta armata in Italia si rafforzò, in tanti aderirono alle bande clandestine a partire dall'estate del 1978. E i delitti non diminuirono prima di un paio d'anni.
Nel biennio 1978-80 le Brigate rosse e le altre sigle della galassia terroristica di estrema sinistra reclutarono molti più giovani che in passato, attratti dalla chimera dell'assalto al cielo che improvvisamente appariva possibile. E la reazione delle istituzioni, che cominciò a dare frutti visibili a partire dal 1980 (soprattutto grazie al «pentitismo»), contribuì sul momento a spingere molte persone nel vicolo cieco in fondo al quale c'erano il carcere e condanne pesantissime.
Ne è un esempio la storia, minore ma simbolica, di Marina Premoli, militante del gruppo armato Prima linea, figlia della borghesia romana benestante e della contestazione sessantottina, padre politico di destra e madre anticonformista, che fece il passo decisivo proprio dopo la metà del 1978. Lo racconta lei stessa in un'autobiografia che per molti aspetti è generazionale, intitolata significativamente Questa è già la mia vita (Quodlibet), senza sconti e senza retorica, lontana da autoassoluzioni, ma densa di appigli per capire le ragioni delle scelte più estreme. «Non saprei dire se la radicalizzazione folle della lotta da parte di alcuni di noi è venuta prima o dopo la chiusura opposta, da un certo momento in poi, da parte delle forze politiche a qualsiasi istanza antagonista, ma tant'è», scrive Marina Premoli, che poi aggiunge: «La via che imbocco - per forza, mi dico - è di gran lunga la peggiore che avrei potuto prendere. In tutti i sensi... Sono caduta nella logica del "contro". Nella convinzione della violenza come dura, odiosa necessità».
Una convinzione che la porterà ad armarsi ed essere arrestata, poi protagonista della tragica evasione dal carcere di Rovigo in cui morì un ignaro passante, e infine alla nuova cattura, quando un poliziotto le fa dono delle memorie di Giorgio Amendola, Una scelta di vita. Scelta diversa da quella dell'ex terrorista, come diverse furono quelle degli agenti di scorta a Moro che la mattina del 16 marzo 1978 vennero sterminati dal commando brigatista per rapire il leader democristiano. Le racconta Filippo Boni ne Gli eroi di via Fani (Longanesi), alla ricerca di radici che si scoprono comuni, anch'esse emblematiche di un periodo: le origini contadine del carabiniere Domenico Ricci (secondo per anzianità dopo il caposcorta Oreste Leonardi) e dei tre giovani poliziotti falciati dal fuoco dei terroristi. Ragazzi che pensavano di costruirsi un futuro vicino a una personalità importante (per Raffaele Iozzino, campano di Castellammare, era la quarta esperienza dopo Colombo, Rumor e Taviani; per Francesco Zizzi, pugliese di Fasano, era il primo incarico accettato di buon grado, perché approdando a Roma s'era avvicinato alla promessa sposa che viveva a Latina), a causa della quale, invece, trovarono la morte. Due anni prima Giulio Rivera aveva prestato soccorso ai terremotati del Friuli; suo padre seppe che l'avevano ammazzato durante il viaggio dalla campagna molisana verso Roma, attraverso le condoglianze di un capopattuglia che l'aveva fermato a un posto di blocco.
Storie vere da cui il romanziere Alessandro Bongiorni, che nel 1978 aveva appena 7 anni, prende spunto per Strani eroi (Frassinelli), una ricostruzione dove alla realtà mescola la fiction per dare corpo a fantasmi e misteri che da quarant'anni tengono quasi in ostaggio il «caso Moro», legandolo ad altri morti che ruotano intorno ai drammatici 55 giorni: dal duplice omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, i due ragazzi della sinistra extraparlamentare assassinati a Milano il 18 marzo 1978 (due giorni dopo il rapimento del leader democristiano), all'esecuzione del giornalista Mino Pecoreni, ucciso un anno dopo a Roma. Bongiorni ricostruisce trame non ufficiali, ma verosimili, per spiegare quei delitti rimasti senza colpevoli, mentre altri due libri (Saverio Ferrari e Luigi Mariani, L'assassinio di Fausto e Iaio, RedStar Press; Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno, Il divo e il giornalista, Morlacchi) scavano negli atti processuali delle due vicende portando alla luce elementi che aiutano a intravedere almeno i possibili moventi delle esecuzioni. A prescindere dai proscioglimenti e dalle assoluzioni che hanno scagionato gli accusati.
Sono guide di viaggio per chi voglia addentrarsi in un labirinto di cui il rapimento del 16 marzo è il punto d'ingresso, e l'omicidio del 9 maggio solo il primo incrocio. Utili perché in quei meandri anche l'osservatore più attento rischia di perdersi, e non è una caratteristica di oggi.
Quarant'anni fa, in pieno sequestro, le ipotesi più disparate erano già adombrate dalle cronache televisive ricordate da Ilenia Imperi in Il caso Moro: cronaca di un evento mediale, che Franco Angeli ha rimandato in libreria. Lì si ricorda, ad esempio, che in un servizio del Tg2 andato in onda il 16 marzo, edizione straordinaria delle 10.30, si affermò che «il latitante Mario Moretti è sospettato di essere collegato con servizi segreti stranieri»; sospetto mai dimostrato, che continua ad alimentare dubbi e dietrologie sulla genuinità delle gesta brigatiste. Nelle quali c'è spazio pure per presunti complotti internazionali, compresi quelli che passano dal Medio Oriente. Dai quali si tiene a debita distanza Francesco Grignetti, che in Salvate Aldo Moro (Melampo) chiarisce - documenti alla mano - confini e modalità della trattativa condotta con i palestinesi; era una delle strade indicate da Moro prigioniero, che all'improvviso si interruppe e non ebbe sbocchi. Il potere all'epoca finse di non saperne niente; un motivo in più per continuare a interrogare e interrogarci, anche attraverso libri come questi, su ciò che accadde realmente.