«Ogni epoca di crisi lascia relitti dietro di sé: lo sanno i protagonisti di Horcynus Orca, i pescatori di Cariddi che quasi con disappunto assistono alla morte del loro incubo più feroce, l’orca assassina. All’indomani della seconda guerra mondiale, quando l’Italia entra nella fase decisiva della modernizzazione, Stefano D’Arrigo racconta la fine del mondo premoderno senza cedere alla tentazione di mitizzarlo: mentre sotto gli occhi del lettore si dispiegano gli scenari arcaici del viaggio di ’Ndrja Cambrìa, la voce che li racconta guida in maniera quasi subliminale nella direzione opposta». D’Arrigo — sostiene Daria Biagi contro la communis opinio — non va già considerato un creatore ma un distruttore di miti, avendo appreso da Hölderlin e da Gogol’ l’arte di rappresentare eroi e valori come relitti. Dal primo, su cui si laurea nel 1942 e che negli anni Trenta e Quaranta rappresenta uno dei massimi punti di riferimento dei poeti ermetici (D’Arrigo compreso: i temi fondamentali della silloge poetica Codice siciliano — il rapporto con la terra natale, l’amicizia e la sfera del mito, presente nella figura del «semidio» e nel ricordo dell’età dell’oro — «assumono una luce particolare se letti in chiave hölderliniana»), eredita una straordinaria sensibilità per la lingua e un uso della parola spesso sconfinante nel non-detto, nel noncomunicabile (il Nostro appartiene alla schiera degli scrittori contemporanei che per la prima volta avvertono l’insufficienza dello strumento lingua e una pressoché totale sfiducia nella letteratura, sino ad allora sconosciuta); da Gogol’ (di cui nell’immediato dopoguerra appronta una «libera riduzione» di Le anime morte dal titolo Il compratore di anime morte, il suo primo cimento narrativo solo recentemente rinvenuto tra le sue carte d’archivio e non ancora dato alle stampe) la rara capacità di fotografare uno degli snodi capitali della storia russa: la transizione dal feudalesimo zarista alla modernizzazione; D’Arrigo ambienta la sua riscrittura nell’Italia meridionale del 1859, poco prima della spedizione dei Mille, quando la fine del Regno delle Due Sicilie prepara la strada all’unificazione nazionale e alla modernità: «Egli, così, ricorda ai sostenitori della modernizzazione che la lentezza di questo processo è dovuta anche alle resistenze del “mondo di prima”, di una cultura preesistente che non si lascia facilmente accantonare come superata»: un discorso che lo scrittore siciliano continuerà nelle opere successive in verso e in prosa (Codice siciliano, Horcynus Orca e Cima delle nobildonne), tutte sottoposte a minutissima e più che persuasiva analisi dalla studiosa, che sull’uomo e sullo scrittore vanta un’informazione totale. Con un’unica riserva concernente il romanzo maggiore, unica ma non trascurabile, vista l’importanza della dimensione linguistica nel modo di formare darrighiano. Scrive la Biagi: «A usare e rimotivare la lingua, a reinterpretarla e a storpiarla, sono quasi sempre personaggi che nulla sanno di significati ‘corretti’ e derivazioni etimologiche. […] I vari tipi di figure e strategie espressive che rispondono a questa logica […] possono essere riunite sotto il comune principio dell’etimologia popolare. […] La figura etimologica, ad esempio, cui D’Arrigo ricorre di frequente e che basa il proprio funzionamento appunto sul legame genealogico tra due parole, in Horcynus Orca tende a sfociare verso la paronomasia, ricostruendo la semantica secondo arbitrarie parentele linguistiche. […] Proprio in riferimento a una delle false figure etimologiche, “l’organo e l’argano”, [si legge in una lettera dello scrittore]: “No, non solo per il suono in senso stretto. I grossi, ingombranti ferribò per fare manovra volevano e vogliono mano di velluto, delicatezza, persino, si direbbe, sentimento, vogliono in una parola musica (organo). Insieme però vogliono sicurezza di comando e perizia e infallibilità di strumenti e motori (argano)”. […] Ricondurre questo tipo di formazioni a un gusto estetizzante, che privilegia i valori fonici a scapito del significato e crea parole su parole seguendo concatenazioni sonore, risulta evidentemente inadeguato nel caso di Horcynus Orca. La lingua che si autogenera,
che produce se stessa a partire dalla propria veste sonora, è una tecnica che per D’Arrigo, preventivamente scettico verso ogni forma di scrittura che non sia calibrata e sorvegliata fino all’estremo, coincide con un ‘automatismo’ estraneo alla sua poetica».
Si allude evidentemente alla tesi sostenuta da chi scrive nella sua Onomaturgia darrighiana, apparsa in «Studi linguistici italiani» nel 1996 (fascicolo I, pp. 74-88; fascicolo II, pp. 235-69; poi in «Letteratura e dialetti», 5, 2012, pp. 107-36, col titolo Onomaturgia darrighiana. Nuova edizione riveduta e corretta), in cui si afferma quanto segue: «Risucchiata nel vortice dell’iterazione infinita e sottoposta a centrifugazione da un’inesorabile, quasi patologica coazione a ripetere, la parola subisce un progressivo svuotamento semantico sino a farsi puro fantasma sonoro, fulcro armonico inquietante attorno al quale ruota e assume ragion d’essere l’intera pulsione affabulativa, mentre la scrittura s’incaglia nelle secche del più vacuo formalismo fonosimbolico e la corrente diegetica vacilla, si smorza, cede alla libera fulgurazione associativa sotto specie d’automatica proliferazione, di ingovernabile narcisismo verbale»; tesi riproposta e approfondita nel saggio Nuove risultanze sul lessico orcinuso (in AA.VV., Stefano D’Arrigo: un (anti)classico del Novecento?, Atti dell’omonimo convegno svoltosi presso l’Université Toulouse II-Le Mirail il 17 e il 18 marzo 2012, Collection de l’e.c.r.i.t., n. 13, Université Toulouse II-Le Mirail, 2013, pp. 31-48): «Mentre in altri scrittori siciliani, ad esempio in Pizzuto, la parola nuova nasce per occupare uno spazio unico nel mondo, battezzando la cosa e transustanziandosi in essa […], nel demiurgo D’Arrigo tutto è celebrato sotto il segno non pure dello sperpero e del più scatenato, muscolare atletismo verbale, ma dell’approssimazione, della rudimentalità, dell’incoerenza fatta legge. […] Si consideri inoltre che, salvo numeratissime eccezioni (ovviamente tutt’altro che intenzionali), nel romanzo non si dànno hapax: la maggior parte dei neologismi par nascere per gemmazione o per meccanismi autoemulativi generanti vere e proprie galassie di composti e derivati». Anziché far credito alle dichiarazioni di poetica dell’autore (troppo spesso, com’è noto, clamorosamente smentite in re), si dovrebbe por mente ai seguenti casi:
– sul modello di mellonara ‘campo coltivato a meloni’ è plasmato cristianara («si dondolavano davanti a quel lungo rettangolo di sabbia cintato di canne, che di lontano si poteva scambiare per una mellonara come le altre ed era invece una cristianara»): da cristiano, nell’accezione familiare di ‘persona’, col suff. -ara (= -aia) di abetaia, risaia, ecc.: ‘cimitero’;
– dalla prossimità contestuale d’uno specchio scocca l’idea paronomastica di specchìo («portavano al sole lo specchio di un armuaro e facevano specchìo»): da specchiarsi col suffisso -ìo intensivo-continuativo;
– smodo — trionfo dell’istintualità e dell’automatismo — nasce quale contrario dell’adiacente modo («se le portava a piacere o meglio, a capriccio suo, se le portava a modo o smodo suo»: dall’antico smodare ‘agire senza temperanza’) e sfame di fame: «fame e sfame»: composto del prefisso s- sottrattivo e fame: ‘nutrimento’;
– da sillabamento («questo parlare tutto ad arte di don Luigi, a ’Ndrja gli faceva l’impressione come d’un baccaglio carcerario, di un sillabamento allusivo»: nome d’azione del verbo sillabare) sillabantemente («tastiandolo insomma così loquentemente, così sillabantemente, da dargli come l’impressione di ricevere un Morse da quella mano»: da sillabare ‘pronunciare le parole staccando le sillabe’), sillabbrare («si scafò a parole la sua bara, come allascasse fra i denti, coi denti, contempo che sillabbrava sdillabbrandosi la parola, il legno della barca stessa»: incrocio di sillabare e labbro: ‘sillabare con gran movimento di labbra’) e nientemeno che un sillasbavarsi («la puntina di don Luigi girava sempre a folle ed era ancora là che alletterava e sillabava, anzi per la verità, si sillasbavava, su quelle ultime due, tre parole che gli restavano da dire»: incrocio di sillabare e
sbavarsi, giocosamente costruito sulle due sillabe finali di «sillabava»). Davvero, dunque, «La lingua che si autogenera, che produce se stessa a partire dalla propria veste sonora, è una tecnica che per D’Arrigo […] coincide con un automatismo estraneo alla sua poetica»?