Recensioni / Andrea Morpurgo, Il cimitero ebraico in Italia. Storia e architettura di uno spazio identitario.

La nuova edizione della monografia di Andrea Morpurgo sui cimiteri ebraici italiani offre un contributo importante alla peraltro fiorente letteratura sulla storia delle comunità della penisola. Un contributo che rende sistematica la conoscenza attraverso un’indagine archivistica minuziosa e una lettura attenta, da architetto oltre che da storico, di quanto di quella storia è ancora fra noi.
Il volume offre spunti di riflessione tanto sul rapporto che la tradizione ebraica intrattiene con gli antenati – e dunque con la memoria – quanto sul rapporto fra le comunità ebraiche e le società nelle quali sono state attive, rapporto che nella mobile localizzazione dei cimiteri e negli atteggiamenti delle popolazioni circostanti verso le cerimonie funebri trova un punto di vista privilegiato.
Come sottolinea Sergio Luzzatto nell’introduzione, il cimitero è anzitutto Bet, casa: «Bet ha-kevarot (casa delle tombe), certamente, ma anche Bet ‘olam (casa dell’eternità), Gut-ort (buon posto) in lingua yiddish, ma comunemente è chiamato Bet ha-chayim (casa della vita o dei viventi). Lo è al punto che, citando la Storia degi ebrei in Italia di Attilio Milano, Luzzatto sottolinea che: la «comunione fra vivi e morti era percepita anche dai cristiani che, per esempio a Venezia, lungo il muro dell’antico cimitero avevano apposto delle targhe con scritto “Casa dé Zudei» (p. 21). All’interno dell’insediamento territoriale quanto mai precario delle comunità – tanto nella permanenza in una stessa località, quanto nella dislocazione all’interno del relativo tessuto urbano – il cimitero, almeno nelle intenzioni, costituisce (o dovrebbe costituire) l’unica invariante, essendo fatto obbligo dalla tradizione di non traslare le salme dei defunti. Un obbligo troppe volte venuto meno, allorché mutate esigenze urbanistiche imponevano agli ebrei di traslocare le salme dei loro defunti in altra località per consentire alle popolazioni locali un migliore sfruttamento di aree in precedenza marginali, ma divenute nel frattempo appetibili per altre e più remunerative funzioni.
Nei cimiteri – se si fa eccezione per il cosiddetto periodo dell’emancipazione – si manifesta appieno la diversità della tradizione ebraica, riconoscibile in primo luogo nel carattere rigorosamente aniconico delle sepolture. Un carattere che non impedisce declinazioni differenti della tipologia sepolcrale – l’autore ricorda anzitutto la principale differenza fra la stele di ascendenza ashkenazita e quella di provenienza sefardita – ma che tutte le accomuna nell’infallibile assenza di qualsivoglia immagine. Tutto si gioca dunque sulla parola, che ricorda anzitutto nome e date di nascita e di morte del defunto, accompagnati talora da brani tratti dalla tradizione mirati a proteggerlo e ad accompagnarlo nella nuova dimora. In alcuni casi compaiono cenni alle sue qualità umane, professionali e civili. Tali parole, come del resto nei testi della tradizione, assumono a volte valenza figurativa attraverso una ricerca grafica accurata e marcatamente espressiva.
Cifra storica dei luoghi di sepoltura ebraici è l’approccio eminentemente gualitario: poveri o ricchi, orientali o occidentali, tutti i defunti hanno diritto a un medesimo trattamento – quanto mai sobrio – tanto nella conformazione della tomba, quanto nella celebrazione della cerimonia di sepoltura. Questa lunga consuetudine conosce una profonda soluzione di continuità con l’emancipazione, che promette agli ebrei l’acquisizione dei pieni diritti precedentemente riservati alla sola maggioranza cattolica. I luoghi di culto e di sepoltura possono finalmente uscire allo scoperto, senza essere più occultati rispettivamente all’interno del tessuto residenziale o in qualche “campaccio” fuori le mura.
Giustamente l’autore individua i percorsi paralleli di templi e cimiteri, caratterizzati da una vena di tipo rappresentativo che esprime compiutamente un bisogno di liberazione da una storia, per quanto eroica, di oppressione. E racconta con dovizia di documentazione entrambi.
Nel nuovo clima le piccole sinagoghe ricavate faticosamente all’interno di piccoli edifici, testimonianze di un passato eroico ma doloroso, non trovano più posto. E allora le cinque Schole veneziane vengono salvate dall’immutabilità della città; le tre Schole ferraresi, dissimulate all’interno di un edificio anonimo, vengono salvate da un decremento demografico che le rende addirittura esuberanti rispetto alle esigenze del tempo; ma a Roma per il geniale complesso delle cinque Schole, miracolosa sinergia di tante micro-identità che non vogliono appiattirsi nel pur dichiarato riconoscimento in una macro-identità comune, non c’è scampo: il Tempio Maggiore – emblema dell’avvenuta liberazione da uno stato di soggezione plurisecolare – non può non travolgerle nel suo cammino di celebrazione dell’equiparazione finalmente conquistata, ben rappresentata da questa “basilica” degli ebrei. E altrettanto avviene non solo a Torino, Milano, Trieste, Bologna e Firenze, ma anche ad Alessandria, Vercelli, Modena, Verona.
L’itinerario dei cimiteri è analogo. La città moderna, nel suo generale processo di espulsione di tutto ciò che non è vibrante – ospedali, manicomi, carceri e per l’appunto cimiteri – colloca tutti i complessi funerari (non più solo quelli ebraici) fuori dai centri urbani, attribuendo loro una valenza monumentale inedita. Anche in questo settore vengono garantiti gli stessi diritti anche alle confessioni non cattoliche, tant’è che in molti casi – valgano per tutti gli esempi macroscopici di Milano e di Roma – agli ebrei vengono attribuiti altrettanti reparti israelitici” all’interno delle nuove, grandiose “città dei defunti”.
E qui si registra il clamoroso distacco dalla tradizione ebraica, con il uperamento dell’egualitarismo: le nuove cappelle funerarie della famiglie insigni si stagliano imponenti sul “tessuto” delle tombe comuni, con l’abbandono della sobrietà: viene messo a punto a grande velocità un vocabolario decorativo che inserisce i simboli ebraici in un contesto figurativo desunto dal monumentalismo cristiano, con l’improbabile ricerca di presunte origini egizie, assiro-babilonesi, moresche. La stessa figura umana, alla fine, riesce a penetrare fra le maglie di una tradizione bistrattata, con l’introduzione massiccia di ritratti dei defunti.
Al termine del suo racconto urbanistico-architettonico-artistico, e prima di resentare un aggiornatissimo atlante dei cimiteri ebraici italiani, Morpurgo inserisce nel testo un capitolo dedicato a “la morte oltraggiata”, ovvero a una sequenza impressionante di affronti a cerimonie funebri e di profanazione di luoghi di sepoltura, che lo conducono a esordire con l’affermazione che «nelle città italiane del tardo Medioevo quindi l’assalto al funerale ebraico non doveva essere uno spettacolo fuori del comune» (p. 172). Uno spettacolo che conoscerà una pausa precaria nel periodo rinascimentale, per prendere nuovo vigore con la Controriforma e, a prescindere dal periodo dell’emancipazione, trionfare negli anni Trenta del secolo passato.
Ebbene, questa disamina dimostra in maniera eloquente, se mai ce ne fosse bisogno, quanto il rapporto con la memoria non solo sia centrale, ma sia stato storicamente avvertito come tale dalle società che hanno ospitato comunità ebraiche nel corso dei secoli. Non stupisce allora che chi ha voluto colpire questa minoranza in ciò che essa considerava più prezioso, si sia scagliato sistematicamente proprio contro i luoghi di sepoltura, che testimoniano con maggiore evidenza l’intensità di quel rapporto.