Recensioni / L’amore ai tempi dei social network nel postmoderno La casa di cartone

Potrebbe succedere a tutti, a chiunque di noi: usciamo da una brutta relazione, aggiungiamo qualcuno a caso su un social network qualsiasi e iniziamo a scriverci. Ci piacciamo, ci incontriamo, ci baciamo. Ci innamoriamo, ci trasferiamo, ci raccontiamo tutto l’uno dell’altra, o l’una dell’altra, o l’uno dell’altro. Ed è così che inizia una storia nuova, ma che forse conosciamo già fino all’epilogo.
La stessa storia che racconta Roberto Molitermi in La casa di cartone, parlando non a caso alla prima persona plurale dall’inizio alla fine: noi ci diamo appuntamento per un aperitivo, noi ci spogliamo per la prima volta al buio, noi sentiamo di aver trovato la persona giusta, in un’epoca in cui il mutismo emotivo viene combattuto usando le chat e le webcam, e in cui solo dopo un segreto “test della compatibilità” a distanza porta a un primo incontro in carne e ossa, magari in un punto panoramico della città.
Diversi nei modi rispetto ai nostri genitori o ai nostri nonni, noi innamorati del XXI secolo abbiamo però molto in comune con chi ci ha preceduto, nel momento in cui una nuova relazione inizia a prendere forma. L’autore ce lo racconta con una dovizia di particolari incredibile, che ci fa sentire coinvolti come non mai: sembra che fra quelle pagine ci siano i pensieri che non abbiamo mai confessato a noi stessi, i tic che abbiamo da una vita, il modo in cui impostiamo la comunicazione con il mondo esterno.
E, a scandire la progressione del rapporto principale, si susseguono degli oggetti ben precisi acquistabili all’Ikea, ovvero in quel mondo alternativo e promettente dal quale ci sentiamo attratti e che vorremmo importare un passo dopo l’altro nella nostra intimità casalinga, con tutto l’immaginario che ne consegue. Simbolo dell’epoca contemporanea e riflessi di desideri e pulsioni recondite, la catena svedese è non solo una presenza fissa nella quotidianità di ogni coppia, ma anche un termine di paragone perenne fra come ci si sente e come ci si vorrebbe sentire.
Nel frattempo, quasi impercettibilmente, cambia il modo di fare l’amore, di uscire in compagnia degli amici in comune e di trascorrere il tempo insieme. Fra una vacanza e l’adozione di un gatto che aiuti a sentirsi mossi da un impegno emotivo condiviso, si modificano perfino i toni di voce, le posizioni in cui si dorme e i limiti che si superano quando si litiga. Lo si intuisce, però non lo si dice mai ad alta voce.
A confessarlo è il libro al posto nostro, per tutte le volte in cui abbiamo taciuto o per i casi in cui abbiamo pronunciato la frase sbagliata, quella che rischiava di ferire e basta, di fomentare la guerriglia rinfocolando le cattive intenzioni di entrambe le parti. Ci riesce con una naturalezza che ci sconvolge e ci imbarazza, facendoci sentire colpevoli da un lato e vittime dei nostri istinti dall’altro, senza possibilità di fuga né spesso di riscatto.
Lo stile immediato, quasi da dialogo fra conoscenti, e un linguaggio che potremmo benissimo ritrovare sulla bacheca di un social network – soltanto più affinato, più sottile, accerchiato da metafore piccole e potenti, che ci danno puntualmente il colpo di grazia – ce ne fa percepire ancora di più la concretezza e il sapore amaro di una veridicità da cui non riusciamo a nasconderci. Così, arriviamo all’epilogo col fiato corto, consapevoli dell’ineluttabilità di quanto ci aspetta, eppure con la sensazione che ci sia qualcosa in più su cui riflettere oltre alla conclusione in sé e per sé.
In effetti, appena ci riprendiamo dallo shock, da una casa di cartone che sa montarsi e smontarsi con maestria mietendo sempre vittime inizialmente ignare del proprio destino, finiamo per chiederci: e se anche il cammino che abbiamo percorso fino al suo epilogo fosse un cliché? E se potessimo modificare il risultato invertendo l’ordine degli addendi e sfidando sfidare ogni legge matematica? Se si potessero costruire altre case, oltre a queste Ikea alle quali ci siamo assuefatti? Magari è la ferocia del romanzo a suggerircelo, ma sta di fatto che da questo tarlo a forma di speranza non ci liberiamo più: finiamo per convincerci che, forse, l’intento di chi ci ha fatto scontrare tanto crudamente con la realtà fosse fin dal principio quello di portarci a metterla in discussione e di renderla, finché siamo in tempo, almeno un po’ migliori.

Recensioni correlate