Recensioni / Gramsci nonostante Gramsci, Negri nonostante Negri

In una fase storica di consolidamento decennale della crisi economico-finanziaria globale e di parallelo sgretolamento dei movimenti politici di contestazione e trasformazione radicale delle società, i processi di elaborazione meteorica che, rispetto a tale crisi, potrebbero fornire strategie interpretative intrecciabili con una qualche forma di praxis sembrano restare saldamente legati, fra i vari possibili ancoraggi, anche a una critica di estrazione accademica.
È proprio in questo contesto, infatti, che si sta rinnovando con una certa alacrità uno dei temi piú cari al dibattito teorico di orientamento marxista. In particolare, è lungi dall'essere tramontata di fronte alla "fine della storia" preconizzata da Francis Fukuyama - o anche a una "fine delle ideologie" che è ideologicamente affine, questa sí, alle discorsività attualmente egemoni, ossia alle formazioni politico-culturali tipiche dell'epoca neoliberista - la contrapposizione tra una tradizione genealogicamente gramsciana e una costellazione piú chiaramente riconducibile al post-operaismo. È un contrasto, questo, che appare talvolta netto, talvolta vicino a configurazioni più diadiche, e che è tornato recentemente ad aprire possibilità di analisi capaci di superare, pur essendovi in qualche modo legate, i confini dello scenario italiano.
Anzi, per quanto riguarda in modo specifico la produzione accademica, nel suo versante gramsciano, si sarebbe tentati di affermare che, negli ultimi decenni, il dibattito si è sviluppato principalmente fuori dall'Italia - con il collettivo indiano dei Subaltern Studies indiani, in particolare - per poi farvi ritorno piú tardi, e con chiari effetti di sovra-determinazione. Questo, in effetti, ha prodotto un'intensa diatriba all'interno della pubblicistica accademica, con la riscoperta, piú o meno "filologica", del pensiero di Gramsci operata dalla critica marxista italiana e anglosassone' in opposizione al Gramsci "subalterno", declinato in vario modo, e non senza dimenticare sviluppi vicini al post-fondazionalismo, come nel caso di Gyan Prakash, o al decostruzionismo, come accade nell'opera di Gayatri Chakravorty Spivad.
Un simile inquadramento storico può legittimamente condurre alla disamina di una (ulteriore, forse ennesima) travelling theory - «teoria in viaggio», stando all'originaria definizione di Edward Said - della quale valutare ciò che viene lost (or gained) in translation. Tale strategia interpretativa, tuttavia, si mantiene entro l'alveo di un'orizzontalità discorsiva che non consente di analizzare verticalmente né i tratti di continuità storica della contrapposizione tra gramscismo e post-operaismo, né le singole fasi di discontinuità. Interpretate, queste ultime, come perdite o sconfitte, esse mantengono la loro carica melancolica di lutti non elaborati, continuando anche oggi a costituire terreno di posizionamento o scontro, secondo declinazioni reattive che sono, alternativamente, moralistiche o identitarie.
Elaborano, invece, positivamente la complessità di questo scenario (e ne prospettano, anche, agibili vie di fuoriuscita) due volumi recenti, e apparentemente molto diversi, come Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria nell'Italia del Novecento (Macerata, Quodlibet, 2016) di Marco Gatto e Subalternità, antagonismo, autonomia. Marxismi e soggettivazione politica (Roma, Editori Riuniti, 2015) di Massimo Modonesi.
Il primo saggio si presenta come una densa ricognizione della complessa storia di ricezione dell'opera di Gramsci nella storia della critica letteraria italiana del Novecento, nella quale, come ha notato Paolo Desogus nella recensione pubblicata su «il manifesto», l'autore «mostra come la separazione tra pensiero e prassi non sia o, comunque, non sia solo la conseguenza necessaria della crisi dell'89, ma sia anche l'esito delle incertezze interne alla stessa critica marxista: alle sue difficoltà di integrare le note gramsciane sulla letteratura nel complessivo quadro dialettico tracciato nei Quaderni».
Incertezze che sono di gran lunga antecedenti alla diatriba tra "subalternisti postcoloniali" e "neomarxisti" e che nondimeno informano il panorama odierno della ricezione - mediata, come si è detto, ma non pienamente rielaborata - di Gramsci nei dipartimenti di italianistica e comparatistica. In effetti, nonostante il saggio di Gatto includa, nelle sue pagine finali, un'acuminata nota a piè di pagina sulla contraddittoria e depotenziante eterogeneità del post-operaismo, il centro d'interesse della proposta teorica sembra risiedere altrove, e cioè nell'impresa di tracciare una storia della critica letteraria italiana del Novecento nel suo continuo operare «nonostante Gramsci» (come recita, d'altra parte, il titolo dell'opera).
Attraversando alcune figure fondamentali per questo dibattito - non soltanto l' intellighentsia comunista degli anni cinquanta e sessanta, o i piú noti Franco Fortini, Asor Rosa o Romano Luperini, ma anche i meno frequentati Arcangelo Leone de Castris, Bartolo Anglani e Roberto Finelli - Gatto ricostruisce questo itinerario teorico-critico nelle sue varie fasi di avvicinamento e allontanamento, talora radicale, dalla lezione gramsciana. Risulta cosí di fondamentale importanza non solo e non tanto l'apertura finale, verso quella che sembra un'ormai montante critica nei confronti della cosiddetta Italian Theory, ma anche e soprattutto la parte iniziale del saggio, nella quale Gatto invita a guardare all'opera gramsciana come modello ancora operativo e pienamente dispiegabile nell'esercizio della critica letteraria e, attraverso di essa, nel posizionamento politico di quegli intellettuali che vi si dedichino.
In questo senso, non si tratta di recuperare le pagine gramsciane, per fare un esempio, sul melodramma o sull'autobiografismo per elevarle a canone critico insuperato - per quanto (e qui si potrebbero udire chiare voci melancoliche) "dimenticato" - né di ripercorrere l'analisi di Gramsci delle opere che hanno fondato il canone letterario italiano - nonostante non si possa poi scindere la complessità del pensiero gramsciano dalla disamina critica di Pirandello o Dante. Si tratta, invece, di

comprendere le specifiche modalità in cui Gramsci non rinuncia al giudizio estetico (e non esautora quelle opere che, pur lontane da interessi socialisti, rappresentano le vette piú alte dell'attività artistica umana), né alle competenze tecniche (anzitutto filologiche, poi storicistiche) di cui esso necessita, bensí incorpora le due istanze in una critica della cultura che sappia rimuovere il pregiudizio idealistico che vuole l'arte come separata dal mondo o addirittura come sede del non ponde rato, del non intenzionale.

Critica della cultura, tuttavia, che non corrisponde né al programma della Kulturkritik né a quello, piú recente, dei Cultural Studies, trovando piuttosto il proprio movente fondamentale nella filosofia della praxis, nella quale, come ha scritto Rocco Musolino, «valori estetici e valori morali si compenetrano e si condizionano reciprocamente su un terreno storico concreto». Questo, in Gramsci, rende possibile la considerazione, a un tempo, dell'«artista» e del «semplice untorello», come si legge esplicitamente nel ventitreesimo dei Quaderni dal carcere: cosí facendo, non si dà di certo adito a quella che è forse l'operazione postmoderna per eccellenza (o forse soltanto la sua piú diffusa volgarizzazione) per la quale "alto" e "basso", coniugandosi nell'analisi, perdono ogni differenza epistemologica, bensí si procede a un'analisi storica e a un reciproco riposizionamento dialettico delle due categorie. Dopo aver ricordato come questa impostazione teorico-critica trovi notevoli echi in un punto di riferimento, non di rado distorto, degli studi culturali anglosassoni come Raymond Williams, con la sua categorizzazione degli elementi culturali «dominanti», «residuali» ed «emergenti», Gatto chiude il proprio cerchio notando come la celebre, e tanto spesso volgarizzata, questione del «nazionale-popolare» gramsciano sia da intendersi in primo luogo sul piano storico e come, a quel punto, «riguard[i] i soggetti primari di questa lotta [per una nuova civiltà]: gli intellettuali».
Tornando quindi a quello che sembra essere il nucleo fondamentale del testo, nel libro occupa un ruolo fondamentale il capitolo dedicato alle figure di Franco Fortini e Asor Rosa, dei quali si approfondisce la notoria contrapposizione tra i due intellettuali fino a «intravedere una possibile» e assai curiosa «sinergia» - sulla scia, tra gli altri, del commento già operato da Arcangelo Leone De Castris sull'utopismo di Fortini e l'operaismo di Asor Rosa come poli complementari di una medesima risposta subalterna al riformismo diventato egemone nel Pci. E infatti rifacendosi all'opera di Leone De Castris, e in particolare a L'anima e la classe. Ideologie letterarie degli anni Sessanta, che Fortini e Asor Rosa, pur nelle loro grandi divergenze, possono essere accomunati dalla critica del Gramsci togliattiano, in virtú della loro comune attitudine critica verso le posizioni politico-culturali dominanti nel Partito comunista. Gatto, in ogni caso, puntualizza subito che, già a partire da Dieci inverni (1957), «resta imprescindibile per Fortini una riflessione sui modelli di costruzione di una possibile alleanza fra intellettuali e popolo, nel solco dell'egemonia gramsciana». Questo, nonostante alcuni pronunciamenti in favore della concezione gramsciana dell'intellettuale, non sembra darsi in Asor Rosa, prefigurando cosi, una tra le fratture effettivamente esistenti tra i due: da un lato, Fortini per il quale la funzione degli intellettuali è «insopprimibile», secondo l'azzeccata definizione utilizzata da Felice Rappazzo, nella loro «azione organizzatrice egemonica»; dall'altro, Asor Rosa che con la figura dell'intellettuale ha un rapporto costitutivamente ambivalente, prevedendone un riassorbimento e neutralizzazione entro la Cultura (intesa esclusivamente come cultura borghese e, in quanto tale, da rigettare) e chiedendosi allo stesso tempo, secondo la nota formula del suo Intellettuali e classe operaia (1973): «Come uscire dalla cultura per fare politica, restando intellettuali?».
Domanda, questa, che crea un singolare campo di tensione all'interno dell'operaismo italiano, dove trova una risposta paradigmatica nel posizionamento di Mario Tronti, il quale, nel 1966, come ha notato Judith Revel, si trova a essere «simultaneamente l'autore di Operai e capitale [e] colui che decide il proprio passaggio dall'operaismo al Pci». Secondo Revel, tale frattura continua a riverberare sul presente, incrinando una ricostruzione storico-filosofica tutto sommato lineare e inclusiva, anche rispetto alla complessa interazione tra operaismo e post-operaismo, come quella di Dario Gentili in Italian Theory. Dall'operaismo alla biopolitica (2012). Problema di storicizzazione non di poco conto, ritrovandosi non soltanto nella ricostruzione genealogica della Italian Theory - a partire da quel Machiavelli che, sí, inaugura la "differenza italiana" e che tuttavia non è riletto attraverso l'importante momento analitico fornito da Gramsci nelle Noterelle sulla politica di Machiavelli (con l'individuazione, cioè, del moderno "mito-principe" non in un individuo concreto, bensí in un organismo complesso come quello del partito politico) - ma anche al centro della sua stessa elaborazione teorica. Riguarda, in tal senso, «il rovesciamento della forma della soggettivazione in forma della mancanza costitutiva» (munus, tra communitas e immunitas) e quindi «della sua sostituzione con il tema della de-soggettivazione» come unica via d'uscita - come se, in altre parole, l'essere-soggetti dovesse darsi sempre dentro il rapporto di capitale, ma poi ne esistesse sempre, e in modo paradossale, anche un fuori, di natura protesici e, per di piú, non conflittuale.
In tal senso, assai diversa risulta essere la posizione di Massimo Modonesi, il quale, anzi, pone il problema della soggettivazione al centro del suo saggio, collocabile all'intersezione tra analisi sociologica e filosofia della politica, Subalternità, antagonismo, autonomia. Marxismi e soggettivazione politica (2015). Ricorrendo a un testo come Poverty of Theory (1978) di E.P. Thompson, particolarmente versato nella critica dell'ipertrofismo teorico che si è prodotto a partire dallo strutturalismo, anche Modonesi, come Thompson, colloca l'esperienza al centro dei processi di soggettivazione. Termine medio tra essere e coscienza, l'esperienza è in larga misura determinata dai rapporti di produzione, pur mantenendo caratteri specifici di processualità e relazionalità. Come aveva già sostenuto in The Making of the English Working Class (1963), «la classe operaia non spuntò come il sole a un'ora stabilita: fu presente al suo "farsi"».
Se la classe è sempre colta in the making - analizzabile, quindi, non come identità monolitica, bensí come relazione e processo - essa può fungere da perno mobile per ri-articolare i rapporti interni ed esterni alla triade formata da "subalternità", "antagonismo" e "autonomia", evitandone derive essenzialiste e al tempo stesso impedendo che i singoli campi concettuali siano investiti di una «ipertrofia esplicativa» o che la teoria risulti un prodotto «sovrapoliticizzato» di istanze altrimenti, o anche solo piú compiutamente, praticabili.
Coerentemente con queste linee programmatiche, Modonesi affianca a "subalternità / antagonismo / autonomia" altre due terne ("dominazione / conflitto / emancipazione" e "subordinazione/ insubordinazione/ emancipazione"), verificandone la tenuta reciproca. È cosí, per esempio, che la subalternità è sottratta all'oscillazione, tipica di una sezione consistente degli studi subalterni indiani, tra «subalternità come politica autonoma» e «subalternità come storia della dominazione». Ricorrendo al dettato gramsciane a una sempre piú necessaria dialettizzazione del nesso egemonia/subalternità, Modonesi sottolinea come la subalternità non possa essere totalmente riassorbita entro i rapporti di dominazione - esito che, per esempio, trapela dalla lettura di un saggio (pure esso stesso deviante dalla tradizione dei Subaltern Studies propriamente detti) come l'ormai noto e variamente volgarizzato «Can the Subaltern Speak?» (1988) di Gayatri Chakravorty Spivak32, con la sua risposta implicitamente, eppure fortemente negativa, alla domanda posta nel titolo - né d'altra parte possa configurare, unicamente in virtú della sua esistenza, una via autonoma alla lotta politica. Modonesi osserva, infatti, come «la ribellione [.. .] anche se emerge genealogicamente dal quadro della subalternità, crei] tensioni al suo interno o, addirittura, le super[i]», producendo cosí quelle contraddizioni, inerenti e trascendenti lo stesso quadro, che sono ben presenti all'autore dei Quaderni dal carcere e che i Subaltern Studies riconosceranno solo nel quinto e sesto dei loro volumi collettanei, tra 1987 e 1994.
A tal proposito, Modonesi dà esaustivamente conto della genealogia del dibattito in cui si inserisce, rendendo giustizia non solo alla lettura filologica di Gramsci, o del lavoro dei Subaltern Studies indiani, ma anche alla già citata polemica tra subalternisti e critica marxista contemporanea. Se Modonesi ottiene cosí di limare alcune delle asperità di quest'ultimo confronto - ricadendo cosí nella prospettiva di un avanzamento non solo dicotomico, ma anche diadico, del dibattito tra neo-gramsciani e post-operaisti - un'attenta ricostruzione dello stato dell'arte non può che sfociare anche nell'adozione di chiavi interpretative peculiari.
Rispetto alle singole discussioni teoriche riguardanti subalternità, antagonismo e autonomia, infatti, Modonesi elegge tre figure di riferimento: Antonio Gramsci, Toni Negri e Cornelius Castoriadis. Se l'associazione di Gramsci con l'analisi della subalternità e di Castoriadis con quella dell'autonomia sembrano piuttosto lineari, è invece con un notevole scarto rispetto alla vulgata corrente che Modonesi legge Negri come nume tutelare non tanto dell'autonomia quanto dell'antagonismo.
La lettura di Modonesi privilegia il Toni Negri degli anni settanta, di Crisi dello Stato-piano (1971) a Marx oltre Marx (1978), anche qui nella consapevolezza che «dagli anni '80 in Poi, in coincidenza con il riflusso delle lotte sociali, Negri comincia un ciclo di riflessioni che, tra continuità e discontinuità, sposteranno il senso delle nozioni di antagonismo e autonomia verso nuovi orizzonti teorici». Nella stessa pagina, Modonesi sottolinea inoltre come il concetto di antagonismo sia, in Negri, «lontano dall'acquisire una coerenza e una stabilità categoriale». Nonostante queste oscillazioni, il Toni Negri degli anni settanta, lettore dei Griindrisse (1857-1858) di Marx, insiste piú volte su un'accezione soggettiva dell'antagonismo che, oltre a supportare le tesi di Modonesi, ottiene anche di strutturare, all'interno stesso del pensiero negriano, una visione politica che non è necessariamente risolta all'interno di quella «logica della separazione» puramente autonomista che, infine, «produce una doppia autonomia contrapposta: quella del potere capitalista e quella del potere operaio».
L'antagonismo, infatti, è individuato da Negri come «motore dello sviluppo del sistema», ponendosi, attraverso la lotta proletaria e il rifiuto del lavoro, in una posizione che è precedente l'autonomia, se si considera questa nelle forme dell'auto-valorizzazione e dell'emancipazione. Tuttavia, se l'autonomia necessita della trasformazione della contraddizione in antagonismo, ciò significa che l'autonomia non può costituirsi come fine ultimo dell'agire politico, essendo sempre legata ai processi complessamente articolati, tanto soggettivi quanto oggettivi, e costantemente in divenire che si imperniano sulla liminalità, tra subalternità e autonomia, della posizione antagonista. Liminalità, tuttavia, che secondo Modonesi attiene a tutte e tre le categorie, le quali non si danno mai in condizioni di assoluta separatezza, restando sempre sovrapponibili tra loro (ottemperando, cosí, alla visione gramsciana, piú che subalternista, della subalternità). In questo, si dispiega una prospettiva anti-essenzialista che lo stesso Toni Negri ha poi inteso censurare, intravvedendo anzi nel testo di Modonesi un'accusa di «eccesso di essenzialismo» verso la sua teorizzazione dell'autonomia, anziché un'attenta ricostruzione genealogica e un uso strategico di questa:

Dunque i teorici subalterni ontologizzerebbero la subordinazione coloniale, i teorici postoperaisti lo farebbero oggi a proposito del lavoratore cognitivo precario, e gli autonomi consiliaristi e municipalisti illustrerebbero il mito di un'emancipazione auto-valorizzante. Non sta a me rileggere, nei miei scritti, la falsità di queste accuse e rivendicare non solo l'insistenza sulla soggettività militante ma anche l'importanza delle anticipazioni, nel tempo prodotte, nella descrizione delle diverse composizioni di classe e dei diversi processi di produzione di soggettività.

In questa sua difesa, tuttavia, Negri non cita un passaggio del libro di Modonesi nel quale si punta il dito verso una sconfitta storica dell'autonomia che pare non essere stata ancora pienamente elaborata (pur rientrando, invece, a pieno titolo nel discorso di mediazione e ri-articolazione che qui si propone):

Gli anni '80, essendo stati un'epoca di riflusso delle mobilitazioni e di riconfigurazione egemonica, offrirono una possibilità di articolazione teorica - poiché non si poteva piú avere un atteggiamento "ottimista" e ancora meno quel trion- falismo che sottostava agli essenzialismi antagonisti e autonomi -, e aprirono le porte all'incorporazione della prospettiva della subalternità. Tuttavia, in quanto il riflusso si manifestò all'interno di uno scenario di evidente sconfitta dei movimenti rivoluzionari nel mondo, gli anni '80 si tradussero, a livello teorico e politico, in un decennio perso, visto che si produsse - come espressione della cosiddetta "crisi del marxismo" - una diaspora teorica e un esodo dalla riflessione politica. Anche se fosse tornato di moda l'approccio della subalternità, piú adatto a spiegare la sconfitta e le sue conseguenze rispetto ai concetti di antagonismo e autonomia, mancarono sia il terreno che le condizioni elementari per l'elaborazione di qualsiasi avvicinamento o articolazione tra le prospettive portatrici dei differenti concetti.

A fronte di questo commento sulla centralità degli anni ottanta come «decennio perso» nella ridefinizione del rapporto tra la tradizione gramsciana e quella post-operaista (in contiguità, quest'ultima, con i posizionamenti dell'autonomia), pare opportuno tornare a interrogarsi con qualità certosina proprio sull'ontologizzazione della subordinazione coloniale nella teoria della subalternità, su quella del lavoratore cognitivo precario in ambito post-operaista e sul mito dell'emancipazione autovalorizzante (mito ancora piú forte, se letto in dissociazione dall antagonismo) nel campo dell'autonomia. È in questa prospettiva che, fuor di provocazione, ripensare «Gramsci (nel suo essere stato) nonostante Gramsci» e «Negri (nel suo essere stato) nonostante Negri» può dischiudere un certo potenziale discorsivo e di posizionamento politico, da verificarsi sia all'interno del luogo dove ha origine tale critica, ossia nel microcosmo sociale dei lavoratori dell'università (come parte di una classe che risulta non ancora riassorbita nell'orizzonte unico, e a tratti mistificante, del "cognitariato" ed è ancora presente al suo farsi), sia al suo esterno.