Recensioni / Chiodi della Croce, lenticchie ultima cena, benvenuti nel mondo delle reliquie (vere o false) d’Italia

Dita, mani, lingue, cuori e capelli. Il Santo Prepuzio e la lettera del Diavolo. In mezzo, femori e sacre spine, piume di Angeli e storie sulfuree di mercanti e devoti. Nel Medioevo le reliquie di Santi, Beati e Martiri viaggiavano da un luogo all’altro della vecchia Europa, con il loro carico di devozione e superstizione insieme. Le parti più pregiate riguardavano le specialità del Santo, come ad esempio i denti di Sant’Apollonia (invocata per evitare il dentista) cavati con le tenaglie: quando Paolo VI li fa raccogliere in giro per il mondo se ne riempie una cassetta con tre chili e mezzo. Infine li condannò all’oblio, gettandoli nel Tevere.
Una dotta e simpatica pubblicazione di Mauro Orletti, Guida alle reliquie miracolose d’Italia (ed. Quodlibet, pp. 230, euro 16), traccia la mappa di queste reliquie di cui l’Italia è piena, da quelle ancora venerate perché miracolose, ad altre cadute invece in disgrazia perché inefficaci per le preghiere-favori del popolo, insieme alle vicende – a tratti vere e proprie spy story – di chi le ha trovate e protette, oppure fatte a pezzi, falsificate o vendute.
In tutto 44 storie imperdibili, l’autore fa stato di una fede semplice legata ai segni, ma - senza forzare i dati con la zampata dell’eretico che indulge sui paradossi - racconta anche di quell’umanità che in un modo o nell’altro cerca di sopravvivere al fulmine eracliteo che governa ogni cosa.
Il Medioevo rappresentò l’età d’oro delle reliquie: si venera di tutto, dalla lancia che ha trafitto il costato del Nazareno alla tovaglia usata per la lavanda dei piedi degli apostoli. E ancora i trenta sicli d’argento dati a Giuda e dal "traditore" poi gettati contro i sacerdoti, il bastone di Giuseppe, il latte della Vergine, il Sacro Cingolo, una piuma dell’Arcangelo Michele e finanche i raggi della stella cometa.
Venezia, invece, fu tra le città più ghiotte di reliquie: scippò pure San Rocco a Voghera, salvo poi cederle «un braccio, l’altro a Roma, una tibia a Montpellier, una rotula a Locorotondo, un frammento osseo a Genova, un tallone a Frigento (nella verde Irpinia, ndr) una porzione di scapola a Scilla, un dito ad Alezio».
A Roma nei secoli «arrivano i sandali di Gesù, la sacra culla, un pane e tredici lenticchie dell’ultima cena, la canna e la spugna imbevuta d’aceto usate per la crocifissione, la colonna della flagellazione, le pietre prelevate dal Santo Sepolcro, una delle cinque teste del Battista».
Reliquie di prima classe, quelle provenienti direttamente ex ossibus, ex carne, oppure di seconda scelta come il cilicio, la polvere grattata dal sepolcro o l’olio della lampada votiva. Fino ai sandali di Gesù e alle lenticchie dell’Ultima Cena. E se a Montevarchi è conservata una goccia di latte caduta dalle labbra di Gesù durante la fuga in Egitto, una mammella di Santa Barbara è invece finita in Russia, mentre ad Ancona è custodita la pietra che colpì al gomito Santo Stefano.
Che dire del Prepuzio di Gesù? Dal 3 febbraio 1900, un decreto della Congregazione per la Dottrina della fede vieta a chiunque di scrivere o parlare della reliquia, eppure sarebbe conservato a Calcata, in provincia di Viterbo. Anche se in giro per l’Europa in realtà ce ne sono almeno altri dodici.
Una chicca la storia delle reliquie di San Gengolfo, patrono dei malmaritati (o cornuti), e lo strano destino di scoreggia che tocca alla moglie che lo aveva tradito, ogni volta che la fedifraga apre bocca. Saputo che sulla tomba del marito, a Varennes, si verificavano miracoli a ripetizione, la (poco) gentildonna esclamò: «Gengolfo fa miracoli? Sì, come il mio culo».
Ma «Tanto cinismo le si ritorce contro: appena pronunciate queste parole, si sente una gran scoreggia. Così, ogni volta che la donna apre bocca, si sente una scoreggia. E non solo quel giorno, che è un venerdì, ma tutti i venerdì a venire: una squallida e fragorosa fanfara, per dirla con le parole di Roswitha di Gandersheim».
E vengono in mente altri sorrisi, quelli che dona Giordano Bruno nelle sue feroci (dottissime) canzonature di creduloni e santocchi. È lo spirito del Nolano nel Candelaio, col suo impagabile ricordo della venerazione dei genovesi per la reliquia dell’asina di Gesù Cristo o per i chicchi di grano benedetti che il popolino adoperava come amuleti contro i mali, o «l’oglio dello grasso della midolla de le canne dell’ossa del corpo di S. Piantorio…».
In fondo, per dirla ancora con il filosofo degli universi infiniti, ciascuno spera di ritrovare il lardo dove ha perso l’erba. Sotto un mantello o l’altro.

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