Recensioni / Meinong, chimere del «fuori-è»

Essere o non essere? Una diade insopprimibile. Ma c'è chi ha percorso una terza via che né Shakespeare aveva intravisto né tantomeno l'ontologia, in venticinque secoli di cammino, si era mai sognata di imboccare. Era infatti una deviazione. Portava fuori strada: fuori dall'essere.
Chi scelse di deviare fu Alexius Meinong (1853-1920). Che il suo nome (lo pseudonimo, anzi, sostitutivo del nobiliare Von Handschuschsheim) scompaia nell'ombra più nera e che pure la storia della metafisica lo abbia affondato nelle tenebre dell'oblio dimostra quanto marginale fosse il sentiero che intraprese. Non senza meta, però.
Nella Teoria dell'oggetto – formulata nel 1903 e pubblicata nel 1904, frutto di una ricerca ventennale – Meinong si muove in un orizzonte assai familiare alla metafisica e alla teologia del passato. Precisamente in quel tratto dello skyline teoretico in cui gl'interrogativi sull'essere e sul divino s'incrociano in una meditazione comune: la relazione tra pensiero ed esistenza. Meinong però taglia il binomio di netto. Traccia in diagonale il segmento che, prolungato, tocca l'oggetto «che fuoriesce», che «fuori-è». Che è, in altre parole, al di fuori di qualsiasi relazione con un intelletto che lo pensa e con la materia che lo ospita.
Chimere? Appunto. Come le montagne dorate o il quadrato rotondo, che il nostro adduce ripetutamente a esempio di ciò che la mente non può immaginare se non infrangendo le categorie trascendentali della percezione conoscitiva. E che, allo stesso modo, il mondo della realtà non può accogliere se non rompendo la struttura della propria configurazione. L'ipotesi suona bizzarra, ma non è così stravagante se già la Scolastica aveva pensato l'eventualità di un ens rationis non dotato di essere. Meinong sapeva bene di non essersi avventurato, lasciando le piste battute, su un terreno totalmente inesplorato: quella dell'«oggetto fuori dall'essere», scrive, «è tutt'altro che una terra appena scoperta. Sin dall'antichità simili questioni sono state trattate sotto il nome di metafisica ed ontologia». Rispetto a quegli (inconsapevoli) precedenti, però, la sua teoria dell'oggetto «puro» si annuncia come l'elaborazione di una disciplina del tutto nuova. Al termine della vita, il filosofo tedesco dovette rammaricarsi di come, fino ad allora, la sua scoperta non fosse mai stata «riconosciuta nella sua singolarità». Né, post mortem, gli sarebbe andata meglio.
Trascurarlo è però un peccato, perché Meinong buca la claustrofobica polarità del binomio essere/non essere (sorretto da quell'altra polarità binaria pensiero/esistenza) di cui per 5mila anni ci si era serviti per sondare lo spazio della filosofia. Il binario che oppone in parallelo gli atomisti e i metafisici, i realisti e i nominalisti, gli empiristi e i razionalisti, i positivisti e gli idealisti, corre ininterrotto dal secolo V a.C. al XX, passando per Shakespeare che si chiedeva What's In a name?, «che c'è mai in un nome?», finora Gertrude Stein, ostinata a ripetere «Una rosa è una rosa, è una rosa». Meinong non procede però in solitaria. Guidato dal suo magister Franz Brentano, convinse il compagno di studi Robert Musil a proseguire la carriera filosofica. Che l'amico abbia poi accettato, su consiglio di Meinong, la libera docenza a Graz, e nell'Uomo senza qualità abbia poi concentrato la summa della teoresi filosofica novecentesca in un'opera di (chimerica?) finzione, vorrà pur dire qualche cosa.