Esce per Quodlibet Grande musica nera. Storia dell’Art Ensemble of Chicago, un voluminoso saggio a metà tra la narrazione storica e la musicologia dedicato al quintetto e ottimamente curato da Claudio Sessa che ne ha scritto anche la prefazione italiana. Per inciso: il volume è “prezioso” nella fattura e dotato di un bell’apparato fotografico. Nato all’interno del contesto sperimentale dell’Aacm (Associaton for the Advancement of Creative Musicians, creata nel 1965 a Chicago da Muhal Richard Abrams), il gruppo va annoverato tra i grandi della storia del jazz, con due caratteristiche peculiari: la longevità (in attività dagli anni Sessanta a oggi) e la gestione “cooperativa” del
complesso, un caso più unico che raro. Figlio della libertà espressiva dei sixties, i cinque membri dell’ensemble erano leader in proprio di altri progetti e riversavano nell’AEOC le scoperte maturate altrove, che messe ad agire in un contesto così aperto, fiorivano ulteriormente. Paul Steinbeck, professore di musica all’università di Saint Louis ma anche esperto di arti visive, performative e mediali ha la giusta sensibilità
per riconnettere in una storia sensata l’enorme quantità di materiale eterogeneo che il gruppo era in grado di esplorare durante un concerto e del quale la musica (improvvisata e scritta) era una parte preponderante, ma non il tutto.
Teatro, gusto della performance in ogni declinazione possibile, fino all’uso della parodia e della provocazione, uso di maschere, mescola sapiente di ogni possibile radice culturale alla base della Grande Arte Nera, capacità di maneggiare l’esotismo con ironia, ricerca di legami con ogni musica nera, da quelle africane a quelle della Diaspora (vedi i viaggi di Lester Bowie in Africa e in Giamaica).
Lester Bowie, Malachi Favors, Josph Jarman, Roscoe Mitchell, e Don Moye hanno saputo unire le loro esperienze formative (il jazz tradizionale, la musica bandistica e quella della chiesa nera, il bebop e il r&b) a tutto quello che il mondo poteva offrire dakk’Africa all’estremo oriente in un equilibrato esercizio di “sincretismo musicale”. Nel periodo classico l’AEOC è uno spettacolare meccanismo scenico/musicale/performativo. La magia si presenta ancora prima che i cinque suonino una nota. A sipario alzato il pubblico insieme alla strumentazione di routine viene affascinato da gong di vari diametri, campane, tamburi di ogni foggia e dimensione, piatti, oggetti sonori di tutti i tipi, disposti in maniera studiata. Nel libro viene riportata la descrizione di Joseph Jarman del semicerchio che è lo stage plot della formazione. «Lo spazio è trasformato in un semicerchio fatto d’oro, di bronzo, d’ottone, d’argento e di rame, uno splendido, scintillante, oggetto sonoro che attende di intonare il suono infinito dell’Art Ensemble of Chicago».
Davvero belle sono le pagine del libro dedicate alle origini del gruppo nel clima di ricerca di Chicago e quelle -minuziose- di analisi di concerti e dischi. Di piacevole lettura, ma meno riuscite, a mio giudizio, quelle che analizzano il periodo parigino, dove il rapporto con il black power viene letto in una chiave troppo rigida che amplifica il presunto misunderstanding culturale tra il pubblico politicizzato europeo e le ragioni esclusivamente artistiche del gruppo.