Parlando di Walter Benjamin, Hanna Arendt ebbe a scrivere una volta che la concezione volgare secondo cui il valore dei grandi uomini sarebbe compreso soltanto dopo la loro morte, «come se la storia fosse un campo di gara sul quale taluni atleti corrono talmente veloci da scomparire dal campo visivo degli spettatori», richiede di essere quanto meno corretta, perché in genere «la fama postuma viene solitamente preceduta dal più alto riconoscimento tra i pari» la fama postuma sarebbe in questo caso tutt'al più «il destino degli inclassificabili»). Considerazioni affini ci può suggerire oggi la meritoria ristampa da parte dell'editore Quodlibet del capolavoro di Enzo Melandri, La linea e il circolo. Saggio logicofilosofico sull'analogia, probabilmente il più ambizioso libro di filosofia scritto in lingua italiana nella seconda metà del ventesimo secolo. Nei trentasei anni che sono passati della prima edizione il corposo volume di Melandri si è trasformato nell'oggetto di un culto esoterico da parte di lettori dagli interessi più disparati, ma se ne è cominciato a parlare in una cerchia più ampia soltanto dopo che Marco Belpoliti ha pubblicato i materiali preparatori per una rivista, «Alì Babà», al cui progetto tra il 1970 e il 1972 Melandri lavorò alacremente assieme a Italo Calvino, Gianni Celati, Carlo Ginzburg e Guido Neri e che purtroppo non vide mai la luce. Almeno alcuni dei suoi «pari» avevano dunque riconosciuto la grandezza de La linea e il circolo, come le loro opere del decennio successivo, da Finzioni occidentali a Spie, avrebbero ampiamente testimoniato. Ma nel complesso, bisogna dirlo, si trattò di una circolazione sotterranea.
Ha ragione Giorgio Agamben, nel bel saggio premesso alla ristampa del libro di Melandri, a suggerire che un'analisi non superficiale de La linea e il circolo non può prescindere oggi da una comprensione della sua limitata circolazione di allora. Le ragioni di questo insuccesso sono però oggettive almeno quanto soggettive; non possono cioè essere spiegate unicamente con la condizione della cultura italiana alla fine degli anni sessanta. La linea e il circolo è un libro difficile che non fa nulla per non intimorire i lettori. I riferimenti alla logica e all'analisi matematica e le citazioni rigorosamente in lingua originale (anche quando si tratta del greco e del tedesco - e qui vanno ringraziati i curatori della nuova edizione che molto opportunamente li hanno tradotti in appendice) non hanno sicuramente contribuito alla diffusione delle sue tesi. Inoltre Melandri dà costantemente per note opere di pensatori come Hans Blumenberg, Thomas Kuhn o Northrop Frye, che all'epoca erano praticamente ignote e che sarebbero ivi. Ora, la sua attenzione al meglio della produzione internazionale, in un paese in cui molti intellettuali devono la loro celebrità nazionale alla tempestività con cui hanno divulgato nel paese ove il sì sona l'altrui pensiero, nel caso di Melandri essa si è trasformato paradossalmente in un ostacolo: nel 1968 discutere il concetto di «metafora assoluta» senza averlo prima accuratamente illustrato significava votarsi all'incomprensione. Curiosamente gli unici filosofi di professione che avrebbero potato davvero capirlo e dialogare con lui erano pensatori stranieri esclusi in partenza dalla lingua in cui il libro era stato redatto.
Tutto questo significa però che oggi siamo in una condizione molto più favorevole per apprezzare davvero il lavoro di Melandri: il pubblico che non esisteva si è formato nel terzo di secolo che è trascorso da allora. E certamente La linea e il circolo dimostra una confidenza con la grandezza per lo meno insolita per il nostro tempo. Il progetto, ambiziosissimo, è quello di elaborare un «calcolo analogico» che si affianchi al calcolo logico tradizionale per giungere infine a un'ermeneutica complessiva della realtà (in cui viene inglobata anche la gnoseologia) e che culmina infine in una dialettica completamente ripensata (ed è per questo che oggi la possibilità di una riproposta attiva dell'opera di Melandri non può che passare prioritariamente da un confronto dei logici, dei linguisti e degli epistemologi con la sua opera). Raffinatissimo stilista, Melandri parte dalla constatazione che il concetto di razionalità umana non è riducibile unicamente a quello di razionalità logica. Sotto forme di similitudini o più semplicemente perché proviamo in continuazione a metterci nei panni degli altri», facciamo - uso tutti i giomi di analogie nei nostri ragionamenti e nell'orientare le nostre scelte, ma le modalità attraverso cui l'analogia funziona non sono ancora state analizzate a dovere (a questo proposito Melandri dedica alcune pagine mirabili alla confutazione della teoria aristotelica dell'inferenza analogica come inferenza dal particolare al particolare, e a dimostrare che, contrariamente alla vulgata tradizionale, gli scolastici non sono stati in grado di sviluppare una metafisica dell'analogia). Ma ce n'è davvero per tutti: analogia iuris e analogia legis, analogie e metafora, analogia e allegoria, analogia e storiografia (come insegna Droysen, ogni operazione storiografica è per forza di cose analogica)... Ogni volta attraverso riletture originalissime dei principali classici della filosofia occidentale, con particolare attenzione ai Greci, a Kant e ai neokantiani e fenomenologi novecenteschi.
In particolare Melandri identifica sette faglie del pensiero o, come dice lui, «luoghi naturali dell'analogia», in cui alcune delle impasse e dei dualismi del pensiero occidentale possono essere superati esclusivamente attraverso il ricorso a una rigorosa procedure analogica. Nella sua introduzione Agamben valorizza soprattutto due di questi momenti, l'archeologia (nel senso di Foucault e Ricouer) e il «chiasma ontologico» (Il principio in base al quale la semantica proposizionale non coincide mai con la semantica nominale), probabilmente anche perché si tratta di temi piu vicini alla sua riflessione filosofica: ma questo non dovrebbe scoraggiare altri lettori dal soffermarsi sugli altri cinque «luoghi naturali» (l'allegoria, il conflitto tra pan-logismo e pan-linguismo, il problema della proporzionalità e la percezione).
La natura costitutivamente «anfibia» delle riflessioni di Melandri rende più accidentato l'approccio a La linea e il circolo, perche il tentativo di organizzare le varie discipline pone ovvi problemi di ordine terminologico (vocaboli come «Strutturale», «tematico» o «funzionale», per esempio, possiedono in ciascun contesto un'acceziome particolare e creano costanti difficoltà). D'altronde Melandri non aveva alternative: una riflessione sull'analogia, proprio in quanto si occupa di un rapporto tra le diverse discipline di cui la logica non può occuparsi, finisce per essere essa stessa, per forza di cose, analogica. L'analogia viene dunque a costituire il ponte naturale tra la creatività scientifica e quella artistica e si rivela lo strumento privilegiato di ogni scoperta davvero innovativa, su questo come su quel versante (mentre l'induzione, a cui e stata spesso ricondotta, finisce invece per rivelare la sua natura puramente «applicativa»). «Conviene dunque sempre cercare analogie, nella speranza che siano rivoluzionarie. Ma è come cercare l'ago nel pagliaio. Le analogie non mancano mai. Dovremmo forse interessarci della paglia? No; la verifica si trova nell'ago. Quel che manca non sono le analogie sono le rivoluzioni. Noi siamo per una filosofia dell'ago e non della paglia. Ed essa sta o cade secondo le sorti alterne della rivoluzione».