Forse suonerà sconosciuto ai più il nome di Milton Gendel... forse perché non celebre come i suoi coevi Helmut Newton, Henry Cartier-Bresson e Robert Doisneau; forse perché assurge al ruolo che merita solo in età matura. Nonostante tutto, si tratta
qui di esaminare l'opera di un indiscusso maestro della fotografia e di un raffinato critico d'arte. Lo fa, per i tipi di Quodlibet, la storica dell'arte Barbara Drudi: il risultato è un ritratto appassionato e dalle sfumature intime; la narrazione biografica, dettagliata ed approfondita, stuzzica continuamente l'interesse, rivelando piccole curiosità ed è piacevole nella sua scorrevolezza. Ci soffermeremo soprattutto sull'analisi del periodo romano dell'autore, sulle influenze che subì e sulle relazioni instaurate proprio nella capitale.
Milton Gendel nasce nel 1918 a New York; trasferitosi a Roma nel 1949, diventerà punto di collegamento e di incontro tra le due culture, quella americana e quella romana. Non siamo ancora propriamente negli anni definiti della "dolce vita" (di norma così denominato il periodo compreso tra la fine del '50 e gli inizi del '60), ma certo Milton Gendel ne visse a Roma una parte e di questa fu testimone. Fotografare gli veniva così naturale che Gendel non riuscì immediatamente ad inquadrare questa passione come un lavoro vero e proprio (è lecito sottolineare che Gendel non era ancora un vero professionista anche perché non disponeva degli strumenti adatti: i colleghi americani usavano la sofisticata Graflex Speed graphic, Gendel scatta le sue prime foto con una Leica, una macchina di gran lunga inferiore a livello di performance). Scoprendo l'amore per lo scatto fotografico, non vuole da subito farne un mestiere; ai tempi infatti si interessava più della storia dell'arte, anche se il suo atteggiamento di larghe vedute, non gli permetteva di ascriversi a nessuna corrente in particolare, per cui gli risultava difficile, pressoché impossibile, schierarsi o dichiararsi apertamente affine a un qualsiasi movimento. Così, lasciandosi
spesso andare a considerazioni sulle nuove forme d'arte e respirando tutto il fermento culturale della capitale, non disdegnava nessuna forma intellettuale di espressione: dalla rivisitazione in chiave moderna della tradizione novecentesca al nuovo realismo al così detto astrattismo (p. 91), Gendel strinse molte amicizie frequentando i salotti dell'epoca. Non legò affatto con Alberto Moravia, ai tempi tra i più importanti personaggi del panorama letterario italiano: oltre alle divergenze politiche, Gendel lo trovava insopportabilmente arrogante (in realtà non era il solo a pensarlo!). Divenne invece molto amico
(il loro sodalizio è documentato anche da alcune lettere) con il pittore Piero Dorazio, uno dei quattro esponenti di quella che era chiamata la Novecento Kultur, alla quale si deve, sotto le influenze di Klee e Kandisky, il rinnovamento della pittura nelle sue forme e nei suoi contenuti. Da sempre innamorato dei paesaggi urbani, nella Roma dell'epoca il nostro trova quell'accordo discordante tra archeologia e decadenza post-bellica. La sua prerogativa, che rende le opere autentiche forme artistiche, è il voler creare dei contrasti, delle opposizioni tra la realtà e ciò che viene carpito con l'obiettivo dalla realtà stessa, cercando anche un pizzico di ironia e di bizzarria, che sa un po' di surreale (a questo proposito si veda il
servizio realizzato durante una scampagnata tra amici nel Parco dei Mostri di Bomarzo).
Dai suoi scatti si evince che conosce il cinema italiano, in particolare l'influenza del neorealismo emerge con forza in alcuni suoi scatti fatti durante i viaggi in Sicilia e in Puglia, dove la desolazione post-bellica è spesso brutalmente evidente. L'intero libro è corredato di immagini di repertorio e splendide foto scattate dallo stesso Gendel spiegate dalla
curatrice/autrice secondo un'attenta lettura dell'opera (si veda l'analisi dell'Autoritratto a pag. 65, definito, in chiave moderna, un selfie ante litteram).
Dalla regina Elisabetta a Peggy Guggenheim, dallo storico dell'arte Giulio Carlo Argan al pittore Salvator Dalì: questi sono
solo alcuni dei personaggi di spicco del secolo immortalati dall'obiettivo di Gendel, al quale si deve la realizzazione di un
grande album della produzione estetica del dopoguerra, visto con lo sguardo disincantato di colui che, poco incline a velleità celebrative, trova in quegli stati di apparente casualità tutta la poesia e la verità di un'epoca.