Recensioni / Michele De Lucchi: «Nei centri commerciali compreremo le idee»

Nello studio milanese dell’architetto e designer che ha ideato la lampada Tolomeo e realizzato edifici in tutto il mondo. Per parlare del mestiere di architetto, «una missione». Delle costruzioni del futuro, delle città e di maestri come Ettore Sottsass: «Vado ancora dal suo barbiere».

In una mattinata milanese di metà luglio, quelle in cui l’asfalto si scioglie sotto i piedi, lo studio di Michele De Lucchi sembra un’isola di fresco e di ordine. La facciata del palazzo di via Varese, zona Moscova, è ricoperta dal verde. Tre piani in legno chiaro, pieni di tavoli da lavoro, studi e una reception tecnologica punteggiata di schermi, su cui scorrono rendering, plastici e modellini. Michele De Lucchi, 66 anni, è architetto. Archistar, si direbbe oggi. «Un termine senza senso», dirà lui. Ha un modo di fare pacato, quasi schivo, parla a bassa voce. Non ha la vena politica di Renzo Piano e Stefano Boeri, né un’imitazione targata Maurizio Crozza come Massimiliano Fuksas. Ha progettato e ristrutturato edifici in Italia, Germania, Giappone e Georgia. Tra questi, l’Unicredit Pavilion di Milano, il Padiglione Zero di Expo 2015, il Ponte della Pace di Tbilisi, in Georgia. È anche designer, la sua lampada da tavolo Tolomeo è un grande classico italiano, premiato con il Compasso D’Oro. I suoi testi sono stati raccolti in I miei orribili e meravigliosi clienti (Quodlibet). Oggi è direttore pro tempore della rivista Domus. Ha collaborato con Olivetti, Poste Italiane, Telecom, Banca Intesa, Alessi e molte altre aziende. Lo trovo seduto nel suo studio personale, uno spazio aperto e luminoso. È appoggiato a un lungo tavolo con le mani in una scodella d’acqua scura. Mi chiedo se sia la fine di un lavoro ad acquerelli, un infuso, un rimedio miracoloso. «Sto lavando le mie stilografiche, ogni tanto tocca farlo», mi dice estraendo dalla ciotola due pennini. «Scrivere con la stilo è tutta un’altra cosa. Queste poi funzionano benissimo, costano poco e non esplodono in aereo». Indossa un’ampia giacca nera di cotone, pantaloni verde bottiglia e scarpe da ginnastica. La barba è lunga, folta e perfettamente curata. Gli occhi vispi dietro gli occhiali tondi dalla montatura giallo-verde. È appena arrivato dal Giappone, dovrebbe essere stanco: non sembra. Mi chiede di dargli del tu «È un invito formale, quindi accettalo», ribadisce. La prima domanda la fa lui: «Di cosa parliamo?».

Del tuo lavoro. Perché hai scelto di fare l’ architetto?
«Perché vengo da una famiglia di ingegneri e volevo diventare un artista. Mio padre aveva otto fratelli, in cinque erano ingegneri, mio nonno pure. Io invece non facevo altro che disegnare. La facoltà di architettura è stata un compromesso. E poi anche mio fratello gemello Ottorino voleva fare il pittore. E lo è diventato, anche se si è laureato in chimica. Dovevo differenziarmi da lui. Sono veneto, di Padova, nato a Ferrara, all’Università mi sono trasferito a Firenze. Ai tempi la città era al centro del movimento dell’architettura radicale: ci interrogavamo sul ruolo sociale dell’architettto. Ho stretto rapporti con Gaetano Pesce, Adolfo Natalini, il gruppo del Superstudio. Ho fondato Cavart: organizzavamo performance. In una, davanti alla Triennale di Milano nel 1973, mi sono vestito da Napoleone con appuntata sul petto la targa “Designer in generale”. Trascinavo un sacchetto della spazzatura con scritto “progetto”. Così mi sono conquistato la mia prima copertina di Domus».

Di cui ora sei direttore.
«Sì. E ho pure curato la ristrutturazione della Triennale. Con il senno del poi la definirei una performance profetica».

Oggi il mestiere di architetto in Italia pare un po’ in crisi. Lo consiglieresti a un giovane?
«Sì. Perché questo è un lavoro in cui ci sono sempre nuovi spazi. Riguarda l’uomo e il suo ambiente: le case, gli arredi, le città, gli eventi. In Italia il tema dell’architettura è totale, in altri Paesi, come quelli anglosassoni, è più incentrato sulle costruzioni. Da noi c’è un approccio antropologico e fare l’architetto è una missione che si rinnova».

E in questi anni qual è il cuore della missione dell’architetto?
«Il rapporto tra l’uomo e la natura, la necessità di prendersi cura del pianeta. Noi architetti dobbiamo sensibilizzare su questo tema. E poi abbiamo il compito di anticipare le esigenze delle persone, capire come possono trasformarsi. Ecco deve essere chiaro che nessuno ti paga per anticipare quello che succederà, anche se è il lavoro più importante. Quello devi potertelo sostenere da solo».

Come si guarda avanti?
«Con i collaboratori del mio studio stiamo lavorando sui luoghi di lavoro. Sono gli ambienti che si evolvono più rapidamente perché il modo di lavorare sta cambiando. Quando l’intelligenza artificiale ci avrà liberati dalle incombenze burocratiche dovremo trovare nuovi spazi per usare il nostro immenso patrimonio di dati. Il lavoro non sarà più stampare fogli di carta, ma organizzare la conoscenza. Durante il Salone del Mobile 2018 abbiamo presentato il progetto Earth Stations. Sono sei luoghi del futuro, definirli uffici è riduttivo, per ora collocati in città immaginarie. Sono studi televisivi, centri congressi, una biblioteca analogica e digitale, laboratori artigianali tecnologici, uno spazio espositivo per nuove forme d’arte e un supermercato delle idee».

Cioè?
«È un vero e proprio centro commerciale dove anziché prodotti si comprano idee, confrontandosi con gli altri».

Curioso, molti ormai acquistano beni materiali solo online. Ma hai pensato a un luogo fisico per comprare le idee: bene immateriale per eccellenza.
«È vero. Ma le idee sono il bene più prezioso che abbiamo. La creatività è la più grande forza che il cervello umano ha a disposizione contro l’Intelligenza Artificiale. Immagina che straordinario computer si potrebbe creare con l’unione di tutte le menti positive in circolazione».

Come si diventa creativi?
«Non pretendendo di esserlo. Nel momento in cui dici “devo essere creativo” sei finito. Invece bisogna guardarsi intorno, essere curiosi, approfondire le informazioni. E poi seguire l’istinto. L’istinto è un bene meraviglioso».

A proposito di idee: come è nata la lampada Tolomeo?
«Guardandomi attorno, appunto. Volevo fare una lampada da tavolo con un lungo braccio. Ho osservato i pescatori che buttano le lenze, le impiantano sulla sabbia e quando il pesce abbocca le tirano a sé. Ho riprodotto lo stesso meccanismo».

De Lucchi si mette a disegnare su un pezzo di carta un pescatore stilizzato con la sua lenza. Gira il foglio, mi chiede: «Si capisce? Lo vedi?», poi riprende con tratto veloce. Inizia una riflessione sugli oggetti, a cui ha dedicato anche i numeri di Domus. Spiega: «La creazione degli oggetti è quello che ci differenzia dagli animali. In realtà anche loro ne producono. Pensiamo agli alveari, i nidi, le tane. Però sono sempre uguali e se, per caso, ne creano uno diverso lo distruggono. Gli uomini invece ne fanno sempre di nuovi e diversi».

Qual è il tuo oggetto preferito? Quello che collezionavi da bambino?
«Le case. So che molti miei colleghi architetti non approvano. Ma per me è così. Se tu guardi un edificio integralmente lo percepisci come oggetto. Da bambino costruivo case ovunque, persino sugli alberi. Ne ricordo una bellissima fatta a Padova, sottoterra, poi la pioggia l’ha spazzata via. Oggi scolpisco le mie casette di legno con la motosega».

E l’oggetto più inutile?
«Direi ancora le case. Quello che imbruttiscono le nostre città, soprattutto le periferie. C’è molto lavoro da fare. Per questo servono tanti architetti». Non viviamo tempi facili: terrorismo, crisi finanziaria, avanzata dei populismi, confini sempre più chiusi.

Sei preoccupato?
«Sì. Soprattutto perché sono anni in cui la gente ha paura e cerca ossessivamente la sicurezza. La ricerca della sicurezza è un metodo di successo per non evolversi. Se provi a essere sicuro non riesci a stare dietro alle evoluzioni e ti distacchi dalla realtà. Oggi vincono quelli che non hanno paura».

E chi sono?
«Nonostante tutto, gli americani. E poi i cinesi e i giapponesi. Le popolazioni che conoscono da poco la tecnologia. Gli arabi che sono costretti a essere coraggiosi perché devono colmare il divario con l’Occidente e sanno che la loro fortuna non è eterna».

L’architetto mi invita a fare un giro per lo studio. Tutto l’edificio affaccia su un cortile fiorito. Passo tra ragazzi che progettano torri sullo schermo di un computer. I collaboratori di De Lucchi sono una quarantina, la maggior parte giovani. Al seminterrato c’è un grande laboratorio di falegnameria. Un avamposto di resilienza artigianale nel cuore della Milano sempre più tecnologica. «Il legno è il materiale più bello. Ci puoi fare tutto», commenta De Lucchi.

Cosa prova un architetto quando lascia “andare nel mondo” la propria opera?
«È bello e intrigante. Quando progetti una casa lo fai per chi la abita, per chi ci ha investito, per gli immobiliaristi, ma anche per chi la subisce e se la ritrova davanti. E poi c’è il grande tema della permanenza dell’architettura. Oggi l’architettura è installazione, evento, performance. È giusto che una costruzione resti per sempre? Io sono per l’evoluzione e la liberazione degli spazi. Se voglio abbattere il mio Padiglione Zero di Expo per me non è un problema».

Expo ha dato una eredità a Milano?
«Sì, soprattutto perché oggi le città si giudicano e sono attraenti per la capacità di gestione e creazione degli eventi. Se Venezia non avesse la Biennale sarebbe solo una località ad uso turisti».

Città preferita?
«Tbilisi, la capitale della Georgia. Ho lavorato tanto lì. È un Paese ricco di spunti. È stato invaso da chiunque, ma ha mantenuto la sua cultura, la sua lingua, la calligrafia».

Se dico “archistar”? «Una parola che non vuol dire niente. Tra qualche anno ne avranno inventata un’altra. Quello che non scompare, invece, è il culto della personalità positivo, gli esempi a cui rifarsi, i maestri. La Russia, ad esempio, è un Paese pieno di contraddizioni, ma che vede ancora i poeti come modelli da seguire. Questo per me è meraviglioso».

Chi hai ammirato molto?

«Il mio maestro Ettore Sottsass. Lo imitavo in tutto: mangiavo come lui, scrivevo solo in stampatello come lui, provavo persino a essere mancino come lui, anche se non lo ero. Questo non scriverlo, anzi sì scrivilo. Lui emanava la sua forza e io, come una spugna, la assorbivo».

Copiavi? Una cosa che un architetto non dovrebbe fare! «Questo è un grande tema. Il problema del copiare esiste eccome nel nostro mestiere, ma bisogna anche considerare che nulla si crea dal nulla e che il valore delle cose, oggi, sta soprattutto nella loro capacità di contaminare, di influenzare»

Torniamo nella reception dello studio, De Lucchi mi mostra i video degli edifici di Earth Stations. «La Crown Station, la libreria, è la mia preferita». Arriviamo alla porta.

Un’ultima domanda. Una curiosità. Come curi la barba? (Ride) «La segue con amore Gino, il mio barbiere di fiducia da anni. Ha il negozio qui vicino. Era il barbiere di Sottsass, maestro anche in questo»