Recensioni / Amori di cartone

Dagli anni Novanta in poi, un bambino su cinque è stato concepito su un letto Ikea: Roberto Moliterni racconta i loro amori. Una generazione fatta di Facebook, Istagram e Whatsapp.

«Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?» scriveva William Shakespeare nella più romantica delle tragedie: Romeo e Giulietta. «Vorrei fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi» ha composto qualche secolo dopo il poeta Pablo Neruda. Dimenticate questi versi, «l’amore che strappa i capelli è perduto». Ne La casa di cartone, romanzo appena pubblicato da Quodlibet, Roberto Moliterni – vincitore del Premio Malerba con la sceneggiatura In prima classe, e autore di Arrivederci Berlino Est (2015) e Storie in affitto (2017) – racconta l’amore ai giorni nostri: la conoscenza sui social network, gli approcci, i messaggi spinti, le vacanze all’estero prima, i soggiorni dai parenti poi, la convivenza, le uscite con gli amici, i mobili Ikea, il gatto cresciuto come un figlio, le serate sul divano a vedere serie tv, il matrimonio che non «s’ha da fare», l’epilogo, perché oggi, come si legge nella quarta di copertina, «una relazione non dura più del mobilio di truciolato compresso».
Un libro che, come un referto medico, mette a nudo la sintomatologia dell’amore, il quale non nasce più dagli occhi, ma dalle foto caricate su Instagram, che va avanti a colpi di «mi piace» su Facebook, che guadagna terreno con i messaggi scambiati su Whatsapp e Telegraph. Le telefonate – qualcuno forse ricorderà la fila alla cabina del bar sotto casa! – hanno lasciato il posto ai messaggi audio, «quelli che ci piace fare, ma non ricevere», quei minuti che ci vedono parlar da soli senza risposta, quei monologhi che non si curano di chi sta dall’altra parte dell’apparecchio. Nella realtà naturalmente qualcosa deve pur accadere: il bacio tante volte immaginato dietro lo schermo del cellulare, trova concretezza nella vita reale, magari davanti ad un tramonto romano al Gianicolo, accanto al venditore ambulante di rose, vero «sacerdote» degli amori moderni, che è ben felice di venderle tutte in un solo colpo. Narrato con il noi, proprio perché è una storia comune a tante altre, anonima quanto banale, La casa di cartone sottolinea il consumismo che si cela dietro il rapporto a due, l’ossessione per l’appartamento dove andare ad abitare (che tanto aveva incalzato il protagonista del precedente libro di Moliterni), il sesso sfrenato i primi mesi che lascia poi spazio alla tenerezza.
«Un bambino su cinque, dagli anni Novanta a oggi, è stato concepito su un letto Ikea» scrive l’autore ed è proprio la nota azienda di mobili a scandire le tappe della storia d’amore dei due protagonisti: una tazza per spazzolini da denti, candele profumate che forse non verranno mai accese, insalatiere in acciaio e vetro, taglieri colorati di legno, tappeti per il bagno e ancora scatole, cornici, bidoncini per l’immondizia. Quegli acquisti che aiutano la coppia a costruire il proprio futuro: il tavolino Lack, Lampan il lume più economico per il comodino, Vinter il copripiumino complicato da mettere a letto, Mulig l’uomo morto. Persino la casa vacanze avrà cassettiere, mensole e cucine Ikea. Le prime accese discussioni nasceranno al momento del montaggio, proprio perché i «mobili impacchettati in scatole alte non più di tre centimetri non si trovano mai dove si dovrebbero trovare o meglio non si trovano mai dove ci aspetteremo di trovarli: il sistema svedese delle lettere e dei numeri avrà pure una sua logica tutta svedese, ma noi non la capiamo». Nel letargo dell’abitudine, che da un lato rassicura, dall’altro spaventa, gli innamorati diventano loro malgrado delle «maschere della commedia dell’arte», consapevoli che scontrarsi con l’amato è come «affrontare una tigre in un circo, sappiamo che non ci aggredirà mai davvero, se rispettiamo la prassi e le distanze». Quando i mobili cominciano a scricchiolare però non c’è più scampo: l’armadio «besta» – che si pronuncia «bestoa – che vuol dire «durevole», ma che come scrive Moliterni potrebbe anche essere tradotto con «per sempre», una notte qualunque smetterà di cigolare e crollando come un biscotto si porterà giù vestiti, pannelli, travi di legno e l’ultima traccia di amore rimasto.
Così come il protagonista de La classe operaia va in paradiso, che solo «distrugge ad uno ad uno gli oggetti che la moglie ha comprato», calcolandone il corrispettivo numero di ore di lavoro in fabbrica, parimenti il protagonista pensa a tutti gli oggetti comprati all’Ikea, al tempo trascorso insieme. La verità è che «le nostre case sono sempre più spoglie: non esistono più videocassette, dvd, libri, album di fotografie. (…) Siamo investiti da un processo di smaterializzazione della realtà, è finita l’era delle cose. Non più pagare per avere, ma pagare per usare, e quello che possiamo usare è infinitamente di più di quello che possiamo possedere».

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