Recensioni / Il baobab immortale con le radici a Chicago

Ci sono viaggi che ci raccontano, ben aldilà delle destinazioni e di ciò che contengono gli zaini, qualcosa di noi, di ciò che siamo e possiamo diventare. È il caso dell'avventura musicale, ben oltre la musica, dell'Art Ensemble of Chicago, raccolta in un saggio musicologico, storico ed esistenziale da Paul Steinbeck, musicista e docente di teoria e composizione all'università di Chicago, ora tradotto in italiano per Quodlibet con il titolo Grande Musica Nera. Storia dell'ArtEnsemble of Chicago. Questo è un saggio sulle intenzioni, prima che un'analisi musicale (con tanto di partiture) di brani assoluti come «A Jackson in Your House» (che apre l'album omonimo del 1969), il primo manifesto dell'Ensemble, vorace e brutale, coltissimo eppure viscerale. il senso di questa storia lo intuisce, tre anni dopo, il grande bluesman Muddy Waters, all'Ann Arbor Blues & Jazz Festival, quando, prima di salire sul palco dopo l'esibizione dell'Art Ensemble, dice ai colleghi appena conosciuti: «Qualunque cosa abbiate fatto sul palco, voi altri, beh, lo facevate davvero». La formazione guidata da Malachi Favors, Joseph Jarman, Roscoe Mitchell, Lester Bowie e Don Moye deve alla città di Chicago (passata dai tremila afroamericani del 1900 a oltre un milione del Dopoguerra) la sua stessa esistenza: l'improvvisazione e la ricerca estrema di un linguaggio nuovo e rivoluzionario non sono che la metafora della mancata integrazione del modello americano e la via di fuga dalla schiavitù del mercato, che semplicemente sostituiva, per un afroamericano, quella delle piantagioni. Altrove o altrimenti (in una Chicago WASP), Bowie avrebbe forse continuato a militare in formazioni di musica dixieland (guidava i Continentals) o avrebbe fatto carriera come trombettista turnista di Chuck Berry e Malachi Favors sarebbe rimasto un buon lineman nella squadra di football della Wendell Phillips Hight School, intrattenendo il pubblico dei pub di Chicago con la sua formazione di musica doo-wop. A Chicago la comunità afroamericana cercava la rivoluzione sotto una bandiera, quella della celebre Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM), che dal '65 divenne «il più influente collettivo di artisti nel campo del jazz e della musica di ricerca». E se la chiave politica apre le porte alle istanze sociali dell'Ensemble, è un'altra la metafora che ne racconta il valore. Fu il batterista e percussionista Famoudou Don Moye a misurarla con una immagine che hai colori dell'Africa ancestrale, il vero Eldorado di questa generazione di sperimentatori. «L'albero immaginato da Moye - ci dice Steinbeck - era il baobab africano, che si dice possa superare i mille anni di vita». Moye parla dell'Ensemble come il fusto del baobab per questi pionieri della musica improvvisata "radicale". E non è un caso che il viaggio dell'Art Ensemble continui tutt'ora (con Mitchell e Moye, per ora), senza apparenti perdite di linfa.

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