Recensioni / Dal 1968 «La linea e il circolo» di Enzo Melandri. Demone Analogia

Per molto tempo La linea e il circolo è rimasto un libro clandestino, un capolavoro della filosofia del Novecento nel quale ci si imbatteva quasi per caso, seguendo un vago «sentito dire» o risalendo con ostinazione sentieri bibliografici appena più battuti, come quelli che iniziavano dalla scoperta di un precedente studio di Enzo Melandri, Logica ed esperienza in Husserl. Oggi che viene ripubblicato in una elegante veste editoriale, con un bel saggio introduttivo di Giorgio Agamben che ne riesamina gli argomenti, i contesti e gli approdi inevasi, è possibile che La linea e il circolo (Quodlibet, pp. xxxv-883, ÷ 48,00) ottenga finalmente l'attenzione di cui non fu degnato quando uscì, nel 1968, e che le sue indicazioni vengano messe a frutto per rileggere una fase cruciale della filosofia recente, rispetto alla quale il silenzio sull'opera di Melandri è stato molto più di un semplice atto mancato. Umberto Eco, tra i pochissimi a dedicargli una recensione, non risparmiò l'acido di un'ironia corrosiva e un gioco di parole solo apparentemente innocuo, quello che avvicinava il cognome dell'autore ai «meandri» in cui il lettore sarebbe stato destinato a perdersi, lungo le oltre ottocento pagine di un volume letto come un «processo a tutto il pensiero occidentale (con qualche uscita su quello orientale) dai presocratici al positivismo». Di processi, però, non c'è traccia nel libro, a meno di non considerare processo un lavoro di analisi e di interpretazione che può essere apparso tanto più irritante, quanto più si allontanava dalle opinioni consolidate dell'accademia e dai dibattiti filosofici alla moda. Il risultato è stato l'opposto: che proprio La linea e il circolo ha subito non solo il processo, ma la sentenza di due atteggiamenti alleati, un silenzio ostile e un'appena più benevola irrisione, che lo hanno reso sostanzialmente inoperoso. Più della mole, è stato forse lo stile del libro ad aver reso difficoltosa la sua ricezione. Nonostante le apparenze, infatti, Melandri ha un procedere conciso, tanto che le dimensioni del volume sono dovute non alla prolissità, ma alla quantità enciclopedica delle questioni affrontate. Lui stesso, in una breve e sulfurea Prefazione di cui Agamben riconosce la matrice in quella di Baudelaire ai Fiori del male, lo nota scusandosi iperbolicamente con i suoi lettori per la «brevità» e reagendo alla sua stessa precauzione con una minaccia: «ho una cassetta di schede, uno schedario per ritrovarle e una memoria che funge da schedario trascendentale. La ragione più vitale (anche se forse non la più vera) per cui mi son messo a scrivere è che dovevo in qualche modo liberarmi di tutta questa cartaccia; ma se qualcuno ci trova da ridire, non chiedo di meglio che riprendere in mano le carte e dissertare tanto a lungo quanto umanamente è sopportabile su ciascuno degli argomenti contestabili». Anche la sfida, come il libro, cadde nel vuoto, ma Melandri avrebbe ancora attinto a quelle cartacce per costruire almeno altri due libri - L'analogia, la proporzione, la simmetria (1974) e Contro il simbolico (1989) - che sviluppano temi già presenti nella sua opera maggiore. E accanto alla preparazione di questi studi, prima e dopo la stesura di La linea e il circolo, allo stesso schedario, presumibilmente, fece ricorso per proporre in italiano alcuni testi molto importanti, ciascuno dei quali aggiungeva un tassello alla costellazione di pensiero che egli intendeva attivare: da Paradigmi per una metaforologia di Blumenberg al Meinong degli Oggetti di ordine superiore, dalle Qualità figurali di Ehrenfels a Il linguaggio e la logica arcaica di Hofmann, per citare solo alcuni dei titoli riportati nella bibliografia completa curata da Salvatore Limongi e ora posta in fondo al volume. Un tentativo, dunque, quello di Melandri, che non si è esaurito nelle pagine di un libro, per quanto di ampie dimensioni, ma che ha cercato di proporsi anche come un progetto di politica culturale nel quale rientravano sia la traduzione di saggi ancora ignoti in Italia, sia l'idea di una rivista che non giunse a vedere la luce e le cui linee intellettuali - vi erano coinvolti, tra gli altri, Italo Calvino, Carlo Ginzburg e Gianni Celati - sono ricostruite da Agamben nella sua Introduzione. Con il passare degli anni, il progetto di Melandri trovò sempre meno ascolto, passando da editori di peso come Il Mulino ad altri di minore circolazione o di tipo strettamente universitario. Non c'è bisogno di aggiungere alcun dato biografico o alcun aneddoto per cogliere il senso di questo progressivo isolamento intellettuale e politico, da leggere in controluce con le vicende culturali della sinistra di quegli anni: la ripubblicazione di La linea e il circolo è il primo, netto segnale del cambiamento di un clima filosofico all'interno del quale all'opera di Melandri - di cui Quodlibet annuncia un'edizione organica - può essere restituita la voce che le spetta. Il compito che Melandri si pone, d'altra parte, non può che richiedere la mobilitazione di un sapere enciclopedico e un'ampiezza di orizzonti come quella di La linea e il circolo. Oggetto del libro è uno «studio logico-filosofico dell'analogia», ovvero l'analisi di un campo concettuale sterminato e che ha rappresentato, per di più, una controversa pietra di paragone per la riflessione filosofica di ogni epoca. «Tutti - esordisce Melandri - facciamo costantemente uso dell’analogia dieci, cento, mille o diecimila volte al giorno»: quando riconosciamo qualcosa, quando identifichiamo le «stesse» cose, le distinguiamo o le apparentiamo con altre, quando percepiamo la continuità del «sé» che ne fa esperienza, quando costruiamo una qualsiasi frase del nostro linguaggio. Se dalla pratica, però, si passa alla teoria, all'analogia viene assegnato uno statuto ambiguo, collocato «in una posizione intermedia rispetto al pensiero puramente formale e a quello contenutistico», e dunque non propriamente assegnabile né alla logica, né alla psicologia. Una «terra di nessuno, allora, l'analogia, su cui Melandri si concentra per compiere un doppio movimento filosofico. Da un lato un movimento che distingue le specie dell'analogia, ne riconosce le forme, isolando quelle che possono essere formalizzate in base a un calcolo non «logico», ma «proporzionale, e individuando quello strato analogico che invece non si può riportare a nessun calcolo e funziona, piuttosto, come le «metafore assolute» descritte da Blumenberg. Dall'altro, un movimento che nell'analogia individua l'oggetto di una rimozione i cui effetti hanno segnato in maniera decisiva il pensiero occidentale, dall'antichità a oggi: risalire a monte di questa rimozione non vuol dire, per Melandri, semplicemente prenderne coscienza, ma disattivarne i princìpi e revocarne gli esiti. Detto altrimenti, se il pensiero critico retrocede sino alle «scene originarie» che hanno determinato il trionfo della logica e la marginalizzazione dell'analogia, non è per ribaltare i rapporti, dunque per sostituire un privilegio con l'altro, ma per gettare lo sguardo oltre quella divisione, verso un terreno non ancora segnato da quella distinzione. È il terreno della «dialettica», scrive Melandri, nel quale la funzione legalizzatrice della logica e quella inventiva dell'analogia possono smettere di combattere la loro antichissima «Guerra Civile e trovano sempre nuovi punti d'equilibrio, non importa quanto stabili o instabili.Con molte buone ragioni Agamben, nella sua Introduzione, avvicina il tentativo di Melandri alla proposta di «archeologia del sapere» formulata in quegli stessi anni da Michel Foucault. È lo stesso Melandri, d’altra parte, a usare il termine «archeologia» per inquadrare il percorso da lui compiuto, ed è in rapporto alla stessa esigenza di guadagnare, tramite la regressione critica, una via d'accesso al presente, che entrambi hanno compiuto un lavoro di cui si avverte la complementarità: «fondando l’archeologia sugli enunciati - scrive Agamben - Foucault le fornisce il paradigma ontologico; Melandri, fondando l'archeologia sull'analogia, le fornisce la logica di cui aveva bisogno».