Recensioni / A che ora si deve mangiare?

Non c’è medico, e soprattutto dietologo, che non raccomandi di stare attenti alla regolarità degli orari dei pasti. Tuttavia, esiste ancora una certa confusione sui nomi con cui siamo abituati a designarli. Confusione che però non è solo italiana. Perché gli orari dei pasti «sono una costruzione culturale e cambiano non solo da un paese all’altro, ma da una classe sociale all’altra e anche da un’epoca all’altra», come spiega Alessandro Barbero in un dotto e divertente saggio (A che ora si mangia? Approssimazioni storico-linguistiche all’orario dei pasti, secoli XVIII-XXI, Quodlibet, 2017). L’autore, storico del Medioevo, come romanziere (ha vinto il premio Strega nel 1996) non ha mai nascosto la sua passione per i manzoniani «due secoli / l’un contro l’altro armato» (il Settecento e l’Ottocento). Continuando a scavare in quel suo prediletto periodo, si è imbattuto in una rivoluzione sociale avvenuta nelle due capitali che allora contavano in Europa, Parigi e Londra.
L’orario settecentesco prevedeva una colazione al mattino appena svegli, che nella lingua internazionale dei ceti elevati era chiamata «déjeuner»; un pranzo molto abbondante, o «dîner», fra mezzogiorno e le due; una cena più leggera («souper») in serata. Questi orari sembrano essere stati condivisi ovunque. Carlo Goldoni, trasferitosi nel 1762 a Parigi, scoprì che l’ora normale in cui la corte e la buona società andavano a tavola erano proprio le due. Nel 1764 James Boswell, nel corso del suo Grand Tour, riesce a farsi invitare a pranzo da Rousseau, e il filosofo ginevrino lo invita a venire a mezzogiorno, in modo da avere il tempo di chiacchierare un po’ prima di sedersi a tavola, ma alle due e mezza il pranzo era comunque finito.
Bisogna tener conto che all’epoca il pranzo, per chi poteva permetterselo, non comprendeva mai, neppure nella piccola borghesia, meno di quattro o cinque piatti, di cui almeno due di carne. Per averne conferma, basta consultare i menù con cui Pellegrino Artusi conclude la sua Scienza in cucina (1891). Kant, secondo Thomas De Quincey, si alzava al mattino presto, prendeva diverse tazze di té e lavorava senza mangiare nulla fino a pranzo, che cominciava all’una e, quando c’erano ospiti, poteva durare anche fino alle quattro o alle cinque; poi andava a letto e non cenava più.
Questi orari sono abbastanza simili a quelli in uso oggi in Italia o in Francia, ma – avverte Barbero – chi ne concludesse che da allora ai nostri giorni non si sia verificato nessun mutamento sbaglierebbe di grosso. In realtà, gli orari dei pasti hanno subito un mutamento così accentuato fra la Rivoluzione francese e la Prima guerra mondiale da ricollocarsi, alla fine, sulle stesse posizioni. Ma è rimasta una differenza linguistica a segnalarci che nel frattempo era successo qualcosa: adesso in francese il pasto di mezzogiorno è chiamato «déjeuner», mentre «dîner» è riservato al pasto della sera. Questa sostituzione di parole è l’indizio di un mutamento di abitudini che si sarebbe manifestato in pieno entro la fine del secolo.
È probabile che la tendenza a spostare in avanti l’ora del pranzo sia iniziata in Inghilterra. Nel 1793 Jeremy Bentham, che non era soltanto un giurista e filosofo notissimo ma un ricco gentiluomo, invita un conoscente a pranzo pregandolo di venire alle cinque del pomeriggio. In quel grande manuale delle usanze sociali che è Vanity Fair, scritto nel 1847-1848 ma ambientato nel 1812-1815, in casa del businessman della City Mr. Sedley si pranza alle cinque anche il giorno in cui le gazzette riportano la notizia della battaglia di Lipsia (16 ottobre 1813), che segna il definitivo tramonto dell’èra napoleonica. Ciononostante il figlio Jos, ingenuamente vanitoso e snob, invitava a pranzo alle sei e mezza. Nella Gran Bretagna ottocentesca lo spostamento dell’orario del «dinner» diventa ben presto un bersaglio della satira: si pranza tardi perché ci si alza tardi. In altri termini, è una moda che fa comodo alle classi oziose.
In Francia, invece, prevale una lettura del tutto diversa, razionale e coerente col trionfo del capitalismo: il ritardo nell’orario non è infatti attribuito ai cattivi stili di vita del bel mondo, ma a un’esigenza di efficienza e produttività, essendo ovvio per tutti che dopo il pranzo non si lavora più. Le cose non cambiano nella Restaurazione: nel febbraio 1815 il futuro presidente degli Stati Uniti, John Quincy Adams, invitato a pranzo da Madame de Staël, esce dalla sua residenza di ambasciatore non prima delle cinque e mezza. Stendhal ci informa che in casa del marchese de la Mole «l’on dînait à six» (Il rosso e il nero, 1830). Questi orari non erano seguiti soltanto a corte e nei palazzi nobiliari, ma da tutti coloro che volevano essere considerati à la page.
La cena rimase così vittima delle nuove abitudini. Il «souper» diventa un pasto notturno. Come racconta Gustave Flaubert nel ballo di Madame Bovary alla Vaubyessard: «À sept heures, on servit le dîner»; poi seguono il ballo, una partita a whist e un «souper» freddo, dopo il quale si balla ancora un valzer e si va a dormire all’alba. Accanto alla scomparsa della cena, la novità più significativa è l’irresistibile ascesa della colazione «à la fourchette».
Prima d’allora, si sedevano a tavola a metà mattina – per fare un robusto spuntino prima del pranzo – soltanto gli americani: nel 1789 i piantatori della Virginia si alzavano alle otto e bevevano un julep, cioè un un whisky con zucchero ghiaccio e menta; alle dieci facevano un breakfast di prosciutto, pane tostato e sidro; e, dopo qualche bicchiere di liquore, andavano a dormire. Ma con i nuovi orari la colazione «à la fourchette» prende piede ovunque, imposta proprio dalla posticipazione del pranzo. Sotto il Primo impero, a Parigi si fa colazione talmente tardi che nasce l’abitudine di invitare la gente a colazione, anziché a pranzo. Questo «déjeuner dînatoire», in cui di solito viene servita persino una minestra, poteva durare anche quattro ore.
Nel corso dell’Ottocento gli orari si spostano in avanti anche in Germania, ma meno marcatamente che altrove. Un manuale di conversazione tedesca stampato a Vienna nel 1856 presenta come esempio la frase «Noi pranziamo alle quattro», orario evidentemente divenuto normale presso la borghesia – ma è significativo che enunciare l’ora a cui una famiglia ha l’abitudine di mangiare sia sentito come un fatto socialmente rilevante. Nell’autobiografico Tonio Kröger (1903), Thomas Mann scrive che «Hans e Tonio avevano il tempo di andare a passeggio dopo la scuola, perché entrambi appartenevano a famiglie in cui non si pranzava prima delle quattro. I loro padri erano grandi commercianti, che ricoprivano cariche pubbliche ed erano potenti in città».
E l’America? I ceti possidenti del New England tendevano a imitare le abitudini inglesi, ritardando l’ora del pranzo, ma senza spingersi così in là come accadeva a Londra. Un libro di cucina pubblicato a New York nel 1847, interessante – fra l’altro – per la perentorietà con cui afferma che gli orari dei pasti sono parte dell’eredità culturale della nazione americana, colloca l’ora del «dinner» fra l’una e le tre, oltre a confermare che «i bona-fide [gli autentici] Americans» non cenano, preferendo il té fra le sei e le otto. L’élite sociale bostoniana, poliglotta e di educazione europea, non era evidentemente per nulla tipica per le abitudini americane. Anche oltre Atlantico, però, l’orologio non si ferma. In Russia la moda di pranzare tardi attecchisce in alcuni circoli intellettuali di Pietroburgo, ma non conquista la nobiltà di provincia.
In Italia i ceti benestanti sembrano pronti a far propri i nuovi orari. «Io pranzo alle quattro», proclama l’arrogante e facoltoso conte, protagonista della commedia Un matrimonio alla moda» di Giovanni Carlo Cosenza, andata in scena a Napoli nel 1823. Nel 1826 Alessandro Manzoni scrive che «la nostra solita ora è le cinque». Dal 1850 a Milano gli uffici chiudono alle quattro; solo gli operai, che si svegliano presto e lavorano tutto il giorno, fanno un pasto a mezzogiorno, mentre i signori fanno al massimo uno spuntino alle undici, equivalente alla colazione «à la fourchette». Ma queste abitudini così sobrie, che si accordavano con i ritmi dell’incipiente modernità, erano diffuse solo nel milieu sociale del conte Manzoni, e solo nella metropoli. In provincia si pranzava assai prima. Ne deriva una disparità di orari tra città e campagna che provoca qualche sconcerto.
A Roma, Gioachino Belli nota che l’abitudine di chiamare «dopopranzo» le ore da mezzogiorno a sera non ha più alcun rapporto con l’ora in cui si mangia realmente, tanto che può scrivere in un sonetto (Santa Luscia de quest’anno, 1832): «Doppo-pranzo dà un pranzo er zor Micchele». I nuovi orari raggiungeranno le classi popolari soltanto più tardi, e vi rimarranno in uso più a lungo. Il fante Luigi Colombini, fatto prigioniero a Caporetto, il giorno di Natale del 1917 annota nel campo di concentramento in cui era rinchiuso: «Alle sei e mezza, al momento che nella vita famigliare si va a tavola, vado sul pagliericcio».
Tutti questi esempi confermano che pranzare tardi è un’innovazione fortemente connotata, che concorre a distinguere la capitale dalla provincia, e in ambedue la borghesia degli affari dal popolo. Un tema ricorrente dei romanzi di Balzac, da Béatrix alla Vieille fille ai Paysans, sono gli orari arcaici dei pasti in provincia, che non cancellano tuttavia le diversità di abitudini tra gli operai e la «bonne compagnie». Lo stesso oltremanica. In Tempi difficili di Charles Dickens (1854), Mr. Bounderby, l’industriale che si è fatto da sé, dovendo invitare a pranzo un gentiluomo, decide di «postponing the family dinner till half-past six» (di ritardare il pranzo fino alle sei e mezza). Arriviamo così al più curioso dei fenomeni: a forza di spostarsi in avanti, il pranzo raggiunge l’orario in cui prima si consumava la cena.
Sono passati circa centocinquant’anni, ma i linguisti francofoni ancora discutono su questo slittamento semantico. Ai cittadini comuni, naturalmente, non interessano i dibattiti sull’importanza di questo o quel pasto. I nomi sono sentiti esclusivamente come indicatori di orario, peraltro in una società in cui l’orario continuato e la pausa pranzo breve hanno introdotto uno squilibrio di cui ancora non sono chiare tutte le conseguenze. In Italia lo stesso fattore – conclude Barbero – ha prodotto un risultato diverso, e cioè che il pranzo, dopo che il suo orario è slittato alle otto o nove di sera, viene chiamato cena, restituendo il nome di pranzo al pasto di mezzogiorno, che solo in rare occasioni formali viene chiamato, con una sfumatura di snobismo, colazione. Insomma, il cerchio si è chiuso e tutto è ritornato al lessico di Carlo Goldoni. Ma questo ritorno è stato possibile solo perché nel Novecento, diversamente che nei secoli precedenti, nelle regioni italiane l’uso si è assestato su due pasti più o meno equivalenti. Beninteso, eccezion fatta per coloro – come chi scrive – che talvolta non disdegnano di saltare la cena pregustando un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino a mezzanotte.

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