Recensioni / I libri del mese

Ad un certo punto nel testo di Steinbeck (anticipato da una breve ma esaustiva introduzione di Claudio Sessa) si deduce la soddisfazione dei membri dell'Art Ensemble quando, negli anni Settanta, venne inaugurato il rapporto di lavoro con la Ecm. La compagnia discografica, fondata poco tempo prima da Manfred Eicher e resa celebre dai dischi di Keith Jarrett, garantiva loro sia la libertà artistica e sia una capillare organizzazione. Così il gruppo sbarcò per la seconda volta in Europa; dopo un fruttuoso soggiorno in Francia maturato al termine degli anni Sessanta, e che oltre alla realizzazione di alcuni album aveva portato i musicisti ad acquisire una piena coscienza dei propri mezzi espressivi. Chicago era la città da dove era ripartita la secolare strada del folklore afro-americano, attraverso le chitarre elettriche di Muddy Waters e di Magic Sam che sostituivano quelle acustiche dei primi bluesman del Sud (mentre le registrazioni di Robert Johnson giacevano negli scantinati della Columbia, prima di essere scoperte da John Hammond e sottoposte al suo protetto Bob Dylan). E dalla stessa città, ribattezzata in America la Città del Vento, e ugualmente dalla tradizione ricominciò anche l'Art Ensemble, rielaborando le origini della musica nera in un quadro di vivace sperimentazione dove far confluire ogni possibile esperienza d'ascolto. Non fu dunque un caso che il gruppo di Lester Bowie, Roscoe Mitchell e Malachi Favors (questi restarono i principali protagonisti, fermo restando il coinvolgimento di altri formidabili musicisti...) incontrò immediatamente l'estetica dell'etichetta tedesca, dove confluivano musicisti da ogni latitudine, facendo del catalogo un racconto melodico del mondo. Il libro celebra non solamente la parabola del gruppo (e cioè l'arricchimento del linguaggio; il concepimento dei dischi come riti di passaggio; la preparazione dei concerti; l'impatto con il costume europeo; le figure di Monk e Coltrane come preziose pietre angolari...) ma rievoca un clima dove il mercato e persino i media richiedevano e accettavano audaci proposte artistiche, spostando in avanti la soglia di apprendimento degli addetti ai lavori e del pubblico. Ora che anche la musica jazz, alla stregua di qualsiasi altra disciplina dell'arte, è divisa in due tronconi, uno commerciale e uno sperimentale, rimpiangiamo un periodo in cui la ricerca non escludeva la comunicazione (da Zappa a Kubrick) in quell'ambito di libertà e di partecipazione che ci trasmise Gaber in una sua celebre canzone.

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