Recensioni / L'estroso Melandri che ribaltò l'Occidente

Sparito, sì, ma non dimenticato, e certamente non ignorato. Che Enzo Melandri, figura tra le più originali, estrose e spregiudicate nel panorama filosofico novecentesco, sia scomparso – 11 anni fa: morì neanche settantenne il 25 maggio 1993 – è irrefutabile. Che i suoi libri – all’epoca tutti pubblicati da il Mulino – siano da qualche tempo introvabili non può negare chiunque ultimamente sia entrato in libreria per acquistarli.
Ma che, su iniziativa di Giorgio Agamben, a un decennio dalla sua morte, le edizioni Quodlibet si impegnino a riproporne l’opera completa, dimostra come non sia affatto venuta meno l’esigenza di rileggerlo. Va dunque applaudita l’impresa dell’editore di Macerata che, con il sontuoso, elegantissimo volume La linea e il circolo (pagg. 900, euro 48), l’opus magnum del maestro genovese, inaugura la serie degli “Scritti di Enzo Melandri”. Va però parzialmente smentita l’affermazione di Agamben che, presentando questo “capolavoro della filosofia europea del Novecento”, nelle prime pagine della prefazione lo dice incompreso, escluso da dibattiti, beneficiato solo da “qualche sparuta recensione”, “passato nel più completo silenzio”, mai nominato, né citato e presto seppellito nel cimitero dei titoli fuori commercio.
Melandri rimase sì – anche per l’eccezionalità della sua indole, e la formazione assolutamente fuori del comune – ai margini dell’accademia. Si lasciò dietro però una lunga discendenza di allievi affascinati dal suo carisma (Besoli, Maj, Bonaga, Dionigi) e di pubblicazioni periodiche (Topoi, Discipline filosofiche) che ancora sopravvivono. La sola rivista che non ebbe un seguito è l’unica che non ebbe inizio, ma l’evento fu tutto nel suo progetto: doveva chiamarsi Apocripha e ci lavorarono, con Melandri, Italo Calvino, Gianni Celati, Carlo Ginzburg e il francesista Guido Neri. Il filosofo, dunque, fu figura marginale nel senso in cui sta ai margini un outsider, un fuoriclasse.
La strada che aveva percorso era tutt’altro che canonica. Proveniva dalla scuola tecnica: aveva studiato da perito chimico. Solo dopo i vent’anni, spinto da una volitività pari solo alla passione e alla motivazione di chi si rimette sui libri in età adulta, affrontò da autodidatta la maturità classica, nel 1954. Quattro anni dopo, a Bologna, si laureava in filosofia. Intanto si era imparato le lingue: il latino, il greco antico, il tedesco. Ai tedeschi andò a insegnare l’italiano e, rientrato dal triennio di lettorato a Kiel, ebbe in affidamento la cattedra di filosofia a Lecce. Era il 1962 e l’anno dopo, a 37 anni, approdava all’Università di Bologna, dove avrebbe svolto l’intero corso accademico. Prima di conseguire l’ordinariato (vinto alla soglia degli anni Settanta), nel primo quinquennio del magistero bolognese, lavorò al suo imponente Studio logico‑filosofico sull’analogia: è il sottotitolo di La linea e il circolo, che uscì nel 1968.
Immediatamente se ne accorse un non sparuto recensore: Umberto Eco che, presosi il tempo di leggerlo fino all’ultima pagina, ne colse al volo la provocazione e ne scrisse sul­l’Espresso: “È difficile rendere conto in poche righe della complessità, la difficoltà, il rigore provocatorio e l’impressionante erudizione con cui l’autore ci conduce, senza mai tirare il fiato, per i meandri della sua argomentazione, obbligandoci a ripensare tutto il pensiero occidentale (con qualche uscita sul pensiero orientale), dai presocratici al neopositivismo”. Il perno attorno a cui il filosofo ribaltava l’ordine razionale d’Occidente era appunto quell’“analogia” che, nemica giurata della “logica”, ne metteva in discussione il discorso di rigore, dimostrandosi insostituibile strumento di scoperta e di dimostrazione. Chiaro che, sulle prime, creasse qualche sgomento colui che, riaprendo coraggiosamente un caso chiuso dai tempi di Wittgenstein scriveva: “Occorre parlare proprio di quello di cui ci sembra dover tacere” e insidiava il pensiero scientifico servendosi della poetica e della immaginazione.
Oggi, dopo 35 anni il lavoro di Melandri conserva intatta tutta la sua portata rivoluzionaria. Non torna però come una scoperta. A salutarlo, con la felicità con cui si ritrova un vecchio compagno di fatiche teoretiche, Massimo Cacciari, che nei suoi libri non ha mai tralasciato di citare Melandri con entusiasmo: “È un’opera ar­dua – dice –, naturale che non abbia avuto vasta divulgazione. Presuppone ampie frequentazioni filoso­fiche: naviga tra la grande scolastica, la fenomenologia, l’ermeneutica. Mi rallegro che Quodlibet abbia deciso di ripubblicarlo: ho inviato alla casa editrice i miei complimenti, augurandomi che a questa seguano presto le altre opere”.
A ritrovarlo, con la felicità con cui si rincontra un vecchio amico è appunto il suo migliore amico: Gianni Celati, lo scrittore che lega il ricordo della sua conoscenza a quello dei propri trent’anni, della propria giovanile eclettica curiosità, di passioni comuni e condivise. Per il gioco delle carte, prima e più che per gli esercizi di logica... “Finì che ci vedemmo tutte le sere a casa mia per una partita”, racconta il narratore che, dieci anni più giovane di lui, conobbe Melandri nel ’68, proprio mentre stava ultimando il librone sull’analogia. “Ero appena tornato dall’Inghilterra e volevo studiare logica. Avevo bisogno che qualcuno mi correggesse gli esercizi, e mi rivolsi a lui. “Che cosa ti interessa di studiare questa roba?”, mi chiese. Così continuammo a incontrarci tutti i giorni, per chiacchierare, per scherzare, per giocare. Andavo a prenderlo verso le sette e mezza e lo trovavo sempre assorto sulle pagine di La linea e il circolo. Io non capivo bene quello che stava facendo, era un’impresa ciclopica: ripensare tutto il sapere scientifico per ribaltarlo nel sapere poetico. Lui me ne parlava continuamente. Mi raccontò anche il seguito del libro, doveva intitolarsi La leva e il fulcro, ma non uscì mai. Io, da ascoltatore passivo, mi godevo i suoi spettacoli di oralità: era un oratore eccezionale, può dirlo chiunque abbia seguito le sue lezioni. Faceva ridere, proponeva paradossi improvvisati”.
L’ironia trapela anche dalle pagine del libro. “Sì, era il suo stile. Purtroppo non stava mai zitto: prendeva in giro i professori, e si fece molti nemici. Tanto più quando uscì La linea e il circolo i colleghi ne furono tutti spaventati. Avevano ragione. Ci vuole un anno intero per rileggerlo tutto con attenzione. Io lo sto rileggendo”.

Il personaggio
Un accademico molto “sui generis”

Enzo Melandri nasce a Genova il 14 aprile 1926. Impara “l’arte dell’autodidatta”, conseguendo nel ’54 il diploma di maturità classica. Frequenta l’Università di Bologna, laureandosi in Filosofia nel ’58. Dal ’58 al ’61 è lettore di italiano presso l’Università di Kiel (Germania). Nel ’61 consegue l’abilitazione all’insegnamento della lingua tedesca e, l’anno dopo, quella alla libera docenza. Nel ’62 ottiene l’incarico di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Lecce, mentre nel ’63 ha l’incarico di Filosofia presso la Facoltà di Magistero dell’Università di Bologna, all’interno della quale svolge il suo intero corso accademico, a eccezione degli anni 1972‑74, in cui – conseguito l’ordinariato – tiene anche l’insegnamento di Filosofia morale presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Trieste. Dall’83 il suo insegnamento è mutuato dalla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bologna. È morto il 25 maggio ’93 a Faenza. Ha collaborato a lungo – dalla fine degli anni ’50 – con la casa editrice il Mulino, pubblicando con essa alcuni dei suoi più importanti lavori. Nel 1979 istituì un gruppo di studi leibniziani. Negli anni Ottanta collaborò alle attività del Centro di studi per la filosofia mitteleuropea di Trento e partecipò alla realizzazione di Topoí, rivista di filosofia. Sempre in quegli anni dà vita agli Annali dell’Istituto di discipline filosofiche dell’Università di Bologna, poi trasformatosi – dal ’91 – nella rivista semestrale “Discipline filosofiche”, di cui è il primo direttore.