Recensioni / Libri del mese

Nell'esortazione apostolica Evangelii gaudium, papa Francesco descrive lo gnosticismo come un sistema di pensiero in cui «interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell'immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (n. 94; EV 29/2200). Ancor più recentemente Francesco è tornato a parlare di gnosticismo in quanto «dottrina senza mistero» (esortazione Gaudete et exsultate, n. 40; Regno-doc. 9,2018, 271, generata da «una mente senza Dio e senza carne». Dallo gnosticismo si origina dunque una fede incapace di «toccare la carne sofferente di Cristo» (ivi, n. 37; Regno-doc. 9,2017,270). L'intelligenza, usurpando il posto della grazia, s'impone quale modello di indagine autoreferenzia le. La capacità riflessiva dell'uomo non è più in grado di rispecchiare o rimandare ad altro da sé. L'astrazione del pensiero domina la scena della ricerca intellettuale relegando l'entusiasmo della scoperta negli steccati di un intellettualismo sterile.
Il pensiero e la vita di Simone Weil sono un invito credibile a contrastare l'attuale tendenza alla dis-incarnazione gnostica. Pertanto il volume di Giancarlo Gaeta intercetta un clima di particolare fecondità pratica e intellettuale per le comunità cristiane del nostro tempo. Nel panorama filosofico e teologico novecentesco, Simone Weil non può essere confinata nei panni dell'autrice o del personaggio. Il suo non è un pensiero che semplicemente dialoga con gli eventi di un'esistenza insolita e sofferta. Per Simone la grazia e il mistero non si addizionano alle opere e ai giorni, ma ne costituiscono l'inscindibile trama di connivenza, essendo carnee anima delle opere e dei giorni. Per questa ragione i suoi scritti non vanno letti, ma avvicinati. Con questa intenzione Giancarlo Gaeta si è fatto loro prossimo nel corso di una lunga ricerca intellettuale. Così egli stesso, nella prefazione al volume, descrive il fascino e la delicatezza di un incontro che è diventato negli anni un confronto maturo e appassionato: «Sono capitato sugli scritti di Simone Weil nell'età in cui l'attivazione della vita intellettuale sopravanza di molto l'esperienza vissuta e induce talvolta a scelte che hanno il tratto impulsivo dell'innamoramento. Spiego con questa circostanza l'essermi messo sulla scia di una pensatrice tanto singolare come per un'avventura dello spirito, senza badare a ciò che ne sarebbe venuto per un futuro ancora tutto da costruire» (9). Avendo curato i Quaderni e la gran parte delle edizioni italiane delle opere di Weil, Gaeta raccoglie nel volume che qui segnaliamo alcune tra le pagine più dense dedicate agli scritti della filosofa e mistica francese. Il lettore viene accompagnato nella scoperta di un pensiero che cresce e matura, nel dipanarsi di una storia personale che si lascia attraversare e per molti versi trafiggere dai fatti più incisivi e taglienti del XX secolo.
Ne è una testimonianza l'ultimo capitolo del volume che ricostruisce cronologicamente la vita e gli scritti dell'autrice in rapporto al clima e agli eventi della sua epoca. Degna di un particolare ricordo è la data del 4 dicembre 1934, quando Simone venne assunta come operaia nell'officina elettromeccanica della società Alstom di Parigi. Da quel giorno si dedicò alla stesura di un diario in cui appuntò minuziosamente i rapporti di lavoro con i dirigenti e gli operai, raccontando gli incidenti e le sventure che la coinvolsero direttamente. Nasce in questo modo il Diario di fabbrica, un documento unico e decisivo per conoscere da vicino la maturazione umana, politica e spirituale di chi lo scrisse. Lo conferma un passaggio particolarmente denso e significativo: «Per me, personalmente, lavorare in fabbrica ha voluto dire che tutte le ragioni esteriori (che prima credevo interiori), sulle quali poggiava a mio parere il sentimento della mia dignità, il rispetto di me stessa, sono state infrante radicalmente in due o tre settimane sotto i colpi di una costrizione brutale e quotidiana. E non pensare che abbia provocato in me movimenti di rivolta. No, al contrario, ha provocato ciò che meno mi sarei aspettata da me - la docilità. Una docilità da bestia da soma rassegnata. Mi sembrava di essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini - che non avevo fatto mai altro che questo» (271). Non stupisce come mai Simone, inaugurando un'altra pagina del suo diario appunti: «Io, la schiava». Impressiona il modo con cui la riflessione sulla propria condizione di vita rappresenti per questa giovane donna il luogo del massimo radicamento nella fede ovvero ciò che più profondamente sostiene la coscienza progressiva del suo uniformarsi a Cristo. Gaeta osserva come Weil non «faccia della sventura qualcosa di desiderabile, ma individui nel pensiero della sventura ciò che è in grado di orientare correttamente l'anima verso Dio (...) In altri termini, se non è lecito desiderare la sventura, che "è per essenza ciò che subiamo nostro malgrado", occorre far assumere all'anima un orientamento tale che la sua eventualità costituisca per essa una partecipazione alla croce di Cristo; la quale non è solo un patibolo» (217).
Un tema che intelligentemente e fruttuosamente ricorre nei saggi di questo volume è quello della volontaria impotenza di Dio. È questo il massimo contributo di Simone Weil al dibattito filosofico e teologico sui modi e le forme della trascendenza. Il diniego e la rinuncia al pur minimo gesto di comando e di supremazia, pur avendone il diritto e la legittimità, costituiscono i tratti massimamente rivelativi di Dio.
L'Incarnazione del Verbo manifesta e realizza nient'altro che questo, dal momento che non può essere pensata «come il compimento dell'opera redentrice voluta da Dio a seguito della caduta, bensì come la pienezza dell'atto con cui Dio ha abdicato alla sua onnipotenza dandoci l'esistenza» (143). Nella rinuncia al comando e al governo del mondo, Simone Weil rinviene chiaramente la rivolta cristiana verso qualsivoglia detenzione del Verbo di Dio nei rigidi confini del politico e del religioso. «Né potrebbe essere diversamente dal momento che l'atto creatore non è più pensato come presenza ma come assenza di Dio dal mondo, un atto di abdicazione che pone una distanza infinita tra la creatura che è nel tempo e il creatore che è fuori del tempo. Una separazione che è innanzi tutto passione di Dio: egli che si è reso impotente nei riguardi della creatura al punto di dover mendicare il suo amore, cioè la rinuncia ad esistere separata da lui. L'amore è così l'esperienza di una separazione e di un'impossibilità a cui fa da contrappeso solo il puro desiderio dell'altro» (142). Una lettura docile e attenta degli scritti di Simone Weil, così come viene offerta nelle pagine di questo volume, è del tutto necessaria per dischiudere, anche nel tempo presente, il senso della dipendenza e dell'umiltà cristiana. Molti segni, nell'attuale stagione ecclesiale, stanno favorendo una nuova comprensione dell'umiltà quale postura personale e comunitaria, quale forma estensiva della grazia.
In sintonia con il pensiero dell'abdicazione di Dio, un altro maestro del Novecento amava affermare con «voce kenotica» che «l'infinitamente amante - Dio - è l'infinitamente umile. Ecco perché non si può vedere Dio nella verità del suo Essere se non considerando il Cristo, che palesa l'umiltà divina con il gesto della lavanda dei piedi»