Recensioni / Lingua e stile nel teatro di Saverio La Ruina: il nuovo saggio di Angela Albanese

Le storie e la lingua: due aspetti che nella drammaturgia, nel teatro di Saverio La Ruina sono strettamente connessi, sono protagonisti, ne fanno un unicum nel panorama teatrale contemporaneo, e non solo.
Un unicum da studiare, da sviscerare, per comprenderlo, ma anche per restituire allo spettatore ciò che ha avvertito, ha sentito, guardando ogni suo spettacolo: la comprensione che va oltre la singola parola, ma che di essa si nutre; l’emozione che nasce dalla parola stessa e dai temi, che si intersecano, che non possono esistere l’una senza gli altri; il linguaggio che è musicalità, è espressione, la parola che diviene drammaturgia anche con le reiterazioni, con i gesti che ne diventano non semplici interpretazioni, ma quasi il proseguimento di un testo. Saverio La Ruina, il suo teatro, il suo modo di esprimersi, di essere in scena: un unicum appunto, che Angela Albanese, nel suo saggio Identità sotto chiave – Lingua e stile nel teatro di Saverio La Ruina (Quodlibet Studio), riesce ad evidenziare, ad interpretare, facendoci assaporare, rivivere nelle sue emozioni e comprendere tutta la ricerca, l’immenso lavoro di creazione, l’intensità di un’opera importante, fondamentale per il teatro italiano. E per quello calabrese in particolare: l’autrice, infatti, da attenta studiosa del linguaggio e del teatro contemporaneo, analizza il percorso artistico dell’attore e autore, come processo creativo che lo ha poi portato a compiere determinate scelte artistiche. Un percorso che è strettamente collegato a quello del teatro calabrese degli ultimi venti anni, all’esperienza di Scena Verticale e alla creazione del festival Primavera dei Teatri.
Da qui, dal legame con il territorio, nasce un percorso, che si riverbera anche nella produzione artistica di Saverio La Ruina: quella che lo ha visto protagonista, negli ultimi decenni, di una «narrazione scenica monologante», di un teatro che supera – come giustamente sottolineato nel volume – quello di narrazione, in cui non c’è la mediazione di un personaggio, come invece avviene nel teatro di La Ruina. Monologhi in cui l’intensità delle tematiche si incrocia, si unisce strettamente all’elemento della lingua: una lingua ricreata, o meglio quella che l’autore ricorda, come perpetuata da quella familiare, in cui mescola dialetti calabresi e lucani, in una melodia che vuole essere vicina al reale, ma non solo. E’ vicina al vero, ma è anche mediata, affinché diventi strumento teatrale, mezzo per raccontare. Ed in questo sta anche la straordinaria capacità di La Ruina: quella di raccontare personaggi di grandissima intensità, dalle storie forti e spesso universali, quelle identità sotto chiave del titolo, attraverso una lingua che ne perpetui l’autenticità ma, nello stesso tempo, consenta di essere lingua di racconto, teatrale, musicale. E lo fa anche attraverso le reiterazioni di concetti, parole, frasi ripetute, come litanie, o per rafforzare un elemento, fare entrare in contatto lo spettatore con il personaggio. Perchè, spiega l’autrice, «non può esserci empatia in assenza di ritmo, un ritmo che – aggiunge Angela Albanese a proposito di Italianesi – nello spettacolo è invece assicurato dalla forza sonora del narrare».
Il linguaggio che si unisce, nel teatro di La Ruina, ad una «gestualità essenziale, composta, lontana da qualsiasi enfasi e costruita per sottrazione, fatta di mosse trattenute e lievi». Tutto questo fa superare qualsiasi reticenza, qualsiasi dubbio di comprensione della singola parola: si entra in quella storia, grazie a questo suono, questo linguaggio che trasporta lo spettatore, come un cantastorie che dell’oralità del racconto ha fatto il perno su cui costruire spettacoli modernissimi.
Questi elementi di forza, che ritroviamo in Dissonorata, ne La Borto, in Italianesi, in Masculu e Fiammina, evidenziano storie di portata universale, come dicevamo: quelle identità sotto chiave che, nel titolo, riprendono Dolori sotto chiave di Eduardo De Filippo. Una scelta che Angela Albanese ha compiuto per cercare una consonanza tra Eduardo e Saverio: una consonanza che l’autrice ritrova e che esiste, tra due autori che hanno guardato a temi e personaggi che si incontrano, così come simile è il modo di raccontarli. La Ruina è, come De Filippo, «capace con pari acutezza interpretativa, di estrarre dai piccolissimi confini geografici e antropologici che indaga le più drammatiche e poetiche sfumature dell’esistenza, il livello massimo di comprensione dell’umano». Non solo: si avvicina ad Eduardo anche nello stile recitativo: l’arte drammatica di Eduardo – evidenzia, infatti, l’autrice – «scaturisce da una recitazione sommessa unita a una mimica premeditatamente discreta, all’uso di un misuratissimo codice mimico-gestuale in grado non solo di valorizzare la parola, ma persino di sostituirla». Consonanze, dunque, che sottolineano ancora di più la valenza dell’arte del drammaturgo e attore calabrese: un autore che, conclude Angela Albanese nel suo saggio, non dimentica la lezione dei padri del teatro italiano, conducendo un’importante ricerca e imponendosi «come felice singolarità di attore-autore», inteso nell’accezione di De Marinis, «come soggetto creatore, autonomia espressiva, presenza scenica significante», che ne fa, appunto, un unicum nel contesto del teatro italiano.