Recensioni / Letteratura latina inesistente: prove tecniche per un manuale potenziale

La storia della tradizione dei testi classici è la storia di voragini, lacune, errori, imprevedibili scherzi della sorte, beffe inattese. Un cimitero di cruces desperationis, anonimo ossario in cui confluiscono frammenti sparsi, emistichi, schegge implose e ormai impossibili da ricomporre.
E sono proprio quei buchi abnormi a solleticare la fantasia dei filologi, bizzarri esseri che custodiscono segretamente nell’armadio le sacre effigi di Karl Lachmann e Luciano Canfora invece delle immagini di prosperose fanciulle ignude o degli addominali scolpiti di Matthew McConaughey.
È in quello spazio inesorabilmente vuoto, nel dialogo interrotto della Storia, in quel silenzio imbarazzato e imbarazzante che si insinua il potenziale, spazio intrinsecamente indefinito e privo di confini precisi come la Polonia di Ubu re, abitato tuttavia da autori che giocano con il linguaggio come fosse materia da plasmare, suggestione metamorfica, iperbolica astrazione. Luogo in cui l’inesistenza, lungi dall’essere mera provocazione intellettualoide e cervellotica, diviene istanza letteraria paradossale e immaginifica.
Esattamente un anno fa vedeva la luce per i tipi di Quodlibet questo curioso volumetto il cui titolo, Letteratura latina inesistente, non poteva passare inosservato agli occhi di una filologa classica redenta e naufragata per caso sulle rive scoscese dell’isola di Faustroll.
Un manuale sui generis, che sembra fare il verso ai volumi di storia della letteratura latina che hanno popolato di incubi le notti dei liceali di tutti i tempi, ricalcandone la canonica struttura cronologica e il procedere per generi letterari, con un corredo di testi ed exempla tradotti dai migliori esperti del settore, rigorosissime note a piè di pagina e persino un’appendice dedicata alle vite di quattro filologi contemporanei, imperdonabilmente ignoti alle istituzioni universitarie e all’ANVUR.
Un manuale che contiene un tesoro preziosissimo: tutto ciò che abbiamo perduto, che non ci è giunto, che è sfuggito a qualsiasi catalogazione d’archivio. In poche parole, tutto ciò che non è mai esistito ma che, proprio per questa ragione, potenzialmente, potrebbe essere e al tempo stesso non è. Dalle prime iscrizioni su oggetti ai carmina propiziatori per ingraziarsi qualche oscura divinità, dalle correnti letterarie premonitrici – che spaziano dal frammentismo ai libera verba – ai rivoluzionari scrittori per viam, dai Neoneóteroi alle nuove frontiere dell’animaecura evolutasi nel culto del diwan.
Le voragini si attenuano, le ferite della storia vengono sanate dall’esprit ludique di un autore che padroneggia con estrema maestria il gioco raffinatissimo della riscrittura, della falsificazione, dell’allusione erudita, della citazione sottovoce, elevando a manifesto poetico e poietico quella che potrebbe apparire a prima vista un’operazione letteraria destinata al solo divertimento.
Sulla scia luminosa della filologia potenziale dell’oplepiano Luca Chiti (autore del Centunesimo canto della Divina Commedia), Stefano Tonietto osa spingersi oltre, sorretto da una fantasia straordinaria e da una altrettanto straordinaria padronanza linguistica, metrica, stilistica: nasce con lui la filologia creativa, disciplina che unisce al rigore scientifico e all’imprescindibile facoltà di divinazione la gioia divertita della creazione, quella follia incontrollata e geniale che rappresenta il sogno impudico di ogni studioso, lo spazio di libertà illimitata di ogni vero scrittore.