Ho conosciuto Enzo Melandri nei suoi ultimi anni di lucidità, quando aveva rimesso mano a Brentano e Husserl per un progetto di ricerche sulla filosofia mitteleuropea. L’alcol aveva già cominciato a minarne la salute, eppure anche nelle discussioni più tecniche – ricordo che una volta a Bolzano prese a illustrarmi in tedesco, per farmi capire meglio, la sua concezione dell’intenzionalità e dell’epochè fenomenologica – emergeva sempre l’esuberanza, l’imprevedibilità, la genialità vulcanica del pensatore e dell’uomo.
Ci voleva il coraggio di un piccolo editore perché La linenea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’'analogia, la sua opera più importante del 1968, fosse degnamente ripresentata al pubblico italiano (Quodlibet, XXXVII + 883 pagg., 48 euro). Nell’impeccabile e illuminante saggio introduttivo Agamben la definisce un capolavoro della filosofia europea del Novecento. Un’iperbole, ma dopo tanto oblio era quel che ci voleva. Si tratta effettivamente di un libro che vibra di tensione teoretica. Uno scavo profondo e complesso su un problema che, da Platone in poi, ha attraversato il pensiero occidentale.
Melandri non si limita però a una perlustrazione del concetto tradizionale di analogia, quello che Aristotele definisce come un’uguaglianza di rapporti, una proporzione, attraverso la quale noi gettiamo per così dire un ponte tra realtà diverse e, collegandole, ne svisceriamo un aspetto. Come quando diciamo, per esempio, che la mente è l’occhio dell’anima, stabilendo in tal modo che la mente sta all’anima come l’occhio al corpo, ossia le fornisce una visione intellettuale analoga alla visione sensibile che l’occhio dà al corpo.
Melandri non intende discutere nemmeno il concetto di analogia nel senso di quello speciale tipo di predicazione – anch’esso definito da Aristotele – che sta a metà tra la polisemia e l’univocità, e in cui il predicato è attribuito a diversi soggetti secondo significati rispettivamente diversi, ma non in modo accidentale come nella polisemia, bensi in riferimento a un’unità, la quale tuttavia non è totale come nell’univocità. Quando per esempio diciamo “sano” di colui che possiede la salute, del clima che la favorisce o del colorito che ne è sintomo, lo diciamo rispettivamente in sensi diversi, ma tutti connessi con il concetto di salute. Nel Medioevo – specialmente con Tommaso d’Aquino – si considererà analogo soprattutto il termine “essere”, e si svilupperà la celebre e controversa dottrina della analogia entis, che diventerà il fondamento della teologia e dell’ontologia tomista.
Tutto ciò, e quant’altro appartenga alla storia del concetto di analogia, non rientra nel libro di Melandri direttamente, ma solo intentio obliqua. Lo stesso vale per l’antica disputa tra gli “analogisti”, cioè i grammatici alessandrini, gli Scipioni, Varrone, Cesare (autore di un De analogia), e gli “anomalisti”, come gli stoici, i grammatici di Pergamo, Cicerone, Quintiliano. I primi consideravano il linguaggio come una formazione convenzionale operata dall’uomo e razionalmente strutturata secondo somiglianze e analogie. Gli altri invece quale risultato naturale dell’uso e della consuetudine, come dimostrerebbero le irregolarità di cui è trapuntato il suo tessuto.
Melandri tiene presente tutto ciò che l’analogia è stata nella storia della cultura occidentale, ma affronta il problema di petto, in chiave teoretica. Fa insomma dell’analogia il concetto-fulcro per ripensare radicalmente il processo della conoscenza e in generale il nostro rapporto con l’ente. Per chiarire come noi costituiamo l’esperienza delle cose, nei loro contenuti, nel loro orizzonte, nel loro senso. Per capire quali strategie adottiamo per ridurre la contingenza di quel caos che è il mondo. Se è vero, come affermava Nietzsche, che gli uomini sono piccoli animali intelligenti che, in mancanza di un istinto sicuro, inventarono la conoscenza come strumento organico di sopravvivenza, allora l’analogia è uno dei più raffinati ed efficaci strumenti che la vita ha inventato per autoaffermarsi, per edificare i propri costrutti sopra il flusso inesausto del divenire.
In anni in cui l’analogia era stata dimenticata come problema teoretico – con la notevole eccezione di Michel Foucault, giustamente ricordata da Agamben – Melandri ebbe il merito di ripensarla a fondo. Scriveva: «Secondo Platone, ci sono due diversi principi di simmetria: la ‘linea’ e il ‘circolo’. Dall’opposizione fra questi due principi ordinatori, tramite l’analogia, derivano molte importanti conseguenze e, non per ultimo, un rilancio della filosofia. E precisamente di una filosofia che non voglia essere né metafisica né pura critica, ma poetica dell’immaginazione esatta e scommessa sul futuro». In piena coerenza con queste dichiarazioni programmatiche, Melandri non fornì un semplice studio sull’analogia, ma una filosofia in grande stile, un’originale e radicale meditazione sullo stare dell’uomo nel mondo e nella storia. Certo, una meditazione basata sulla «povertà pressoché monomaniaca dell’argornento», eppure tale da porsi all’incrocio di riferimenti cardinali: «L’Analogia confina a sud con la Tematica e a nord con la Dialettica; al centro, fra un ovest che è la Scienza e un est che è l’Arte, essa è coinvolta in una lotta intestina con la Logica»
A opera compiuta, Melandri si congedava da mente raffinatissima qual era: «Al lettore che preferisco, il quale coltiva in segreto tutti i vizi dell’intelligenza contro i quali combatte; al lettore ipocrita, mio simile e fratello». Che mai avrà voluto dire con queste ingannevoli parole? Forse mettere in guardia il suo smaliziato lettore dal dono velenoso che gli affidava: il compito di pensare quel «fuggevole intervallo tra la scimmia e il superuomo», in cui «si tratta di mettere un po’ meglio a fuoco la nostra essenza transeunte di animali razionali».