Recensioni / La linea e il circolo del filosofo ignoto

Non c’è dubbio che una certa aria d'insoddisfazione stia circolando nella filosofia. Da tempo si avverte un sentore di stanchezza, l'idea che in giro ci sia ben poco se non di buono quantomeno di nuovo. Viene da chiedersi se tutto questo non dipenda anche (non solo) dalla difficoltà a fornirsi di parametri del nuovo. E non è detto che il nuovo debba sempre assomigliare all'erompere dell'essere dal nulla, al lampo che s'impone come una sorta di luce abbagliante. I1 nuovo – ce lo insegnano i romantici – può manifestarsi anche come un rimescolarsi degli elementi che provengono dall'antico, un nuovo mosaico formato dalle stesse tessere del precedente. Nuovo può anche essere rimettere a contatto le sfere del sapere che sono andate separandosi alla ricerca della loro comune radice. È nuovo da questo punto di vista quel passo che non rimette in questione il sapere in quanto tale ma i confini tra i suoi ambiti richiamandone le connessioni, le analogie che possono mettere a giorno contiguità inedite.
A considerazioni di questo genere si viene indotti dalla rilettura de La linea e il circolo di Enzo Melandri. Si tratta, infatti di uno Studio logico-filosofico sull'analogia. Se il titolo di quest'opera maestosa comparsa originariamente nel 1968 e oggi meritoriamente ripubblicata da Quodlibet con un saggio introduttivo di Giorgio Agamben, è malioso ma insieme scoraggiante nel suo carattere criptico e un po' evocativo non lo è di meno la mole davvero imponente del libro. Come se non bastasse – ma, date le premesse, non c'è da stupirsene – l'autore è poco più che uno sconosciuto.
Melandri è una delle non poche figure significative di pensatori italiani del Novecento rimaste ai margini dello stream principale della filosofia europea. Genovese di nascita e bolognese di adozione, ha una formazione eccentrica che inizia con studi tecnici per orientarsi solo più tardi alla filosofia. Sarà per lunghi anni e sino alla morte, avvenuta nel 1993, professore di filosofia all'università di Bologna. È una personalità sofferente ma di grande sobrietà e statura intellettuale. Melandri vive e risente – come del resto quasi tutti in quegli anni – della cultura dello strutturalismo e intende proporre uno sguardo archeologico, stratigrafico sulle scienze umane che sappia sottrarsi all'immediatezza, alla superficie del presente, per addentrarsi criticamente nel profondo e andare alla ricerca del rimosso.
È un contesto epocale nel quale la cosiddetta "cultura del sospetto" di area francese (all'insegna di autori come Nietzsche, Marx, Freud) si congiunge a una sorta di ossessione per la memoria che pervade in quegli anni la cultura letteraria, il cinema e anche quella filosofica. Non è inopportuno ricordare in questo quadro che la pubblicazione di La linea e il circolo è preceduta di qualche anno da quella di Verità e metodo, l'opera maggiore di uno dei più grandi filosofi del Novecento, Hans Georg Gadamer nel quale si attiva un vigoroso appello a risarcire la memoria destituita delle sue prerogative dallo sviluppo tecnologico imperante.
Per cogliere dunque il terreno sul quale veniamo a trovarci con La linea e il circolo, bisogna allora distinguere, in una chiave critica e rigorosa, la scienza, il sapere scientifico da quello tecnologico, e farlo in particolare quando quest'ultimo intenda proporsi con pretese egemoniche. Per fare ciò è necessario collocarsi in una zona fluida volutamente ai confini tra i saperi, in una posizione che ci consenta se è il caso di tracciare un'altra volta questi stessi confini, contestando tra l'altro il primato della logica e quello del principio di non contraddizione. Melandri vuole riabilitare a questo proposito un antico strumento epistemologico, quello dell'analogia, che aveva tra l'altro incontrato una notevole fortuna in età romantica e ancora più tardi all'inizio del Novecento con autori come Oswald Spengler. Ma più che guardare a queste rinascite moderne dell'analogia Melandri intende mettere a profitto il concetto in vista di un rinnovamento dello statuto epistemologico delle scienze umane.
La conoscenza articolata da queste discipline è una conoscenza di tipo archeologico: esse si addentrano nel passato dell'uomo come entro un sedimento del quale vengono individuati i diversi strati sino a pervenire a un punto cruciale. Qui giunti, tocchiamo un punto estremo nel quale l'apparato metodico delle scienze umane viene a incontrare quella soggettività vivente che costituisce il paradossale oggetto di questi studi. Si tratta dunque d'inabissarsi nelle strutturazioni oggettive e soggettive della storia e della cultura per giungere a una struttura ultima se non originaria, quella di conscio e inconscio.
Varcata anche questa soglia, oltrepassate le colonne d'Ercole della soggettività non abbiamo tuttavia a che fare con un andamento che in senso freudiano potrebbe essere definito come regressivo. Si è pervenuti in realtà a una zona plastica, sorgiva che costringe a invertire la direzione di marcia. La regressione verso il passato si risolve su questa via in un'apertura sul futuro che conduce dal sapere all'evento, in uno sguardo che non è tecnologicamente amministrabile, che non può rientrare nel quadro della logica classica retta dal principio di non contraddizione la cui specchiata chiarezza è infine funzionale a un buon andamento “economico”, al dispendio minimo di energie. Viene così a configurarsi una prospettiva sul possibile che sta prima e dopo il reale e include così un evento ma anche il suo opposto.