Recensioni / Recensione di Incontri coi selvaggi

Selvaggio. Per definizione rozzo, primitivo e arretrato, crudele, disumano, sfrenato, da non avvicinare. Ma ai giorni nostri in cui sembra dilettevole apparire tale, per sorprendere i ben pensanti e i ligi alle regole, per il gusto di sgarrare e risultare insolenti, per indispettire presenti e astanti che un certo seguito prova gusto a soddisfare curiosità insolite.
Il volume in questione non fa la storia della buona creanza, ma di una specie che a volte si è evoluta e trasformata ed altre ne ha generato un fatto apparente. Chi ha cercato di approfondire o decifrare il fenomeno sono gli etnografi dopo la scoperta dell’America e i promotori della globalizzazione.
L’autore da questi presupposti ne ha fatto una specie di racconti che lui stesso ha definito «una sorta di parabola». E da questi intenti si è soffermato a fare un po’ l’analisi di protagonisti, spesso viaggiatori scalcagnatamente avventurosi. Da ciò un insieme di sentori, di perplessità, di delusioni, di eros, di truffa sui quali si concretizza lo stupore o la meraviglia.
Dai titoli dei vari capitoli derivano i figli del sole o ne prevalgono navi, radici per sfamare naufraghi barbuti di date successive al 1500. In elenco ci sono pure Psalmazar, l’impostore di cui si sa poco, René Caillié e Timbuctù (storia di esplorazione). I quattro fuegini e L’esperimento di Fitz Ray, Malinowski ove si parla di lingue diverse in un contesto di amore libero da letamaio orribile, in segno di ammissione che gli istinti, gli stimoli di bisogni non sono altro che conseguenze di vomiti e di schifo.
Sintomi che sprigionano ogni carica dell’umano esistere in epoca di scoperte di cose sconce. Visioni che fanno dire a Malinowski «i trombiandesi non li sopporto, soprattutto quando sotto la zanzariera nella tenda, cerco di lavorare, risultando continuamente disturbato dagli schiamazzi e dalle continue risate». Ne La palla di fuoco si parla di stregoneria che genera disgrazie che causano la morte «di chi ne è vittima, ma questa non avverrà per circostanza improvvisa, bensì per l’esito di una lenta malattia; poiché la vittima muore soltanto quando lo stregato avrà mangiato l’intera anima di un suo organo vitale, il che è un’operazione che richiede tempo». Altre popolazioni prese in esame, gli Eschimesi dell’Ottocento, la caccia all’orso bianco, ritenuta perfino dai cani occasione sostanziosa di approvigionamento. La caccia provoca rincorse, strattoni. Effetti dell’odore che fugge. I cani affamati diventano come bestie selvagge. L’orso, fuggendo, si rifugia, sentendosi braccato, in cima a una montagna di ghiaccio. Una caccia forsennata in nome del principio secondo cui, in natura, esiste la lotta perenne tra animali grossi e piccoli. E chi può, salva la vita, I deboli soggiacciono.
In Vita sessuale dei Nambikwara si parla del copulare. Tale discorso riguarda l’uso del corpo nel corso del tempo. Da tale premessa si ritiene probabile che l’accoppiamento tra due europei dei Rinascimento differisca da quello di una coppia di metà Ottocento,anche il copulare ha subito gli effetti della globalizzazione? I gesti amorosi dipendono dai tempi? Per disaminare su tali presupposti si ricorda quanto Lévi Strauss aveva approfondito negli anni Trenta. E le ricerche del nostro sono arrivate a conferme positive su tale questione. Da qui si arriva a diversi atti sessuali che regolano la copulazione. Nella ricerca viene tirato in ballo Kinsey e la concezione secondo cui fare l’amore è un fatto pubblico, bello a praticarsi e a fare. Sembra un’ovvietà ma gli anni in questione dimostrano una certa anticipazione su ciò che avverrà.
Mano a mano che il discorso si fa più vicino a noi, vengono in risalto aspetti meno selvaggi, anche se più rifiniti.
La ricerca di Talon si conclude nel rievocare l’ecoturismo che compendia autenticamente primitive per ricordare pratiche sempre più difformi e variabili. Si arriva a ciò dopo aver rievocato i cacciatori, che tagliavano la testa dei nemici catturati e uccisi, che poi mangiavano. Le zone in cui avvenivano tali gesta erano quelle della Nuova Guinea, che da colonia tedesca era passata sotto il controllo dell’amministrazione australiana. Vengono rievocati luoghi ove, intorno a un albero, facevano la danza rituale prima di tagliare le teste. Tra le popolazioni indigene di popolazioni primitive: Libano, Iran, India, Thailandia, Birmania, Cina, Filippine, Indonesia, le Isole del Pacifico, L’Australia, il Sud Africa, tutto il Sud America, etc. E dopo tale elenco viene descritta la casa degli spiriti che per gli indigeni è un’invenzione umana, essendo derivata dall’oceano, origine del mondo. Tutte queste rievocazioni fanno ricordare ambienti surreali o fantastici, anche se riguardano certe storie del mondo da cui si sono evolute tendenze, anche se la matrice di fondo è il primitivo selvaggio. Il mondo non si distacca dalla vita. Potrà sì evolversi, svilupparsi, ma le origini restano inculcate proprio dalla natura e da un substrato di origini e incontri, mai fantascientifici o irreali.
Il mondo è vario. Per questo mai fisso e definito. Almeno che non si voglia rendere tutto uno spettacolo ad effetto.
La figura del selvaggio ha per secoli nutrito utopie, immaginazioni, coniando lo stesso pensiero dell’Occidente. Dalle scoperte, dagli incontri sono avvenuti fraintendimenti, in nome dell’avventura verso l’incognito e un mistero a mo’ di fuga o di ampliamento di confini frequentati e destinati. Per la vita consueta che gli smaniosi dei cambiamenti hanno cercato di debellare. Anche se spesso il gesto di ampliamento o propagazione ha causato tante infelici disfatte. Non occorre citare Icaro, Ulisse o Narciso per dimostrarlo. L’esistenza non è solo costituita da realtà o fatti storici, dato che il vero creatore è lo scopritore che di selvaggio serba il ricordo.