Recensioni / La nuda vita dai campi di sterminio alla nave Diciotti

Tra qualche giorno la casa editrice Quodlibet pubblicherà l'edizione integrale di Homo sacer, l'opera in più volumi che ha reso la biopolitica di Giorgio Agamben fra le proposte più rilevanti della filosofia contemporanea. Si tratta di una nuova occasione per riflettere sulla portata filosofico-politica di tale proposta.
Sono passati quasi venticinque anni da quando Giorgio Agamben inaugurò il percorso di pensiero dell’Homo sacer, completato nel 2014 con il nono e ultimo volume. Questo percorso viene ora raccolto da Quodlibet in edizione integrale: oltre milletrecento pagine che sarebbe importante leggere o rileggere, perché in esse Agamben torna all’origine della politica occidentale – dove essa si confonde con la metafisica nel tentativo di definire l’umano – per interpretare la contemporaneità, alla luce dello stato totalitario novecentesco e del genocidio degli ebrei, come catastrofe planetaria in via di svolgimento, vuoto giuridico che diventa norma in uno stato di eccezione permanente e dominio dell’economia e del governo realizzato in un’intima solidarietà tra democrazia e totalitarismo.
Agamben prende le mosse dalla tesi di Foucault, formulata nelle ultime pagine della Volontà di sapere, secondo cui la modernità nacque in Europa verso la metà del XVIII secolo quando il potere assunse la gestione e la pianificazione della vita biologica della popolazione, determinando da un lato la fortuna della nuova scienza demografica e dall’altro la proliferazione di «tecnologie politiche che investiranno il corpo, la salute, le modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita, l’intero spazio dell’esistenza» (Foucault menzionò tra esse la scienza della polizia: oggi basti pensare oggi al poderoso apparato retorico che tramite pubblicità, talk-show, telegiornali e industria culturale plasma esigenze ed aspettative delle popolazioni investite). Con un neologismo spesso abusato ai nostri giorni, Foucault definì tutto questo dicendo che la nascita della modernità coincide con la nascita del “bio-potere”.
Foucault non arrivò mai ad applicare la sua tesi allo studio degli stati totalitari del Novecento: ma lo fa appunto Agamben, che colloca Auschwitz e il genocidio all’interno del nuovo orizzonte biopolitico della modernità. Anziché definire il campo di sterminio come il luogo in cui si verificarono gli eventi elencati e descritti dalla storiografia dei decenni successivi, Agamben si domanda cosa doveva accadere affinché il campo di sterminio diventasse possibile e legge il nazifascismo come una risposta dello Stato al nuovo compito biopolitico. In Italia il fascismo attuò per primo l’annessione della vita da parte della politica tramite lo stato corporativo (incaricato di regolare normativamente, oltre al lavoro nazionale, anche il dopolavoro e la vita spirituale); in Germania il nazionalsocialismo statalizzò e regolamentò, tramite le leggi razziali, anche quell’ambito della vita biologica che fino ad allora era rimasto privato. La regolamentazione passò per quattro stadi: la discriminazione biologica della minoranza ebrea; la privazione dello status di cittadino, sul quale le costituzioni europee innestavano (e innestano oggi) la titolarità dei “diritti umani”; la revoca della nozione di “delitto” in relazione agli ebrei e il genocidio della razza realizzato su scala industriale (in una rete di mattatoi).
La produzione dell’homo sacer (la «nuda vita»: ciò che resta quando sia la legge umana che quella divina si ritraggono dall’uomo lasciandolo fuori della loro giurisdizione) è da sempre, secondo Agamben, la prestazione fondamentale del potere sovrano. Lo è fin dall’inizio della politica, che non poteva definire se stessa se non riferendosi – escludendolo – a quel vivente misterioso, necessariamente presente e altrettanto necessariamente invisibile, che è l’essere umano inteso come puro organismo biologico. Nel diritto romano arcaico homo sacer era colui che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che nessuno poteva sacrificare agli dèi. Si potrebbe dire che non apparteneva a nessuno, perché si può sacrificare solo ciò che si possiede. In questo senso il potere nazista ha portato alle estreme conseguenze, con gli ebrei, quella liceità di uccidere e quel divieto di sacrificare. Ha derubricato la loro uccisione dalla categoria dell’omicidio e non li ha “sacrificati” in guerra come gli altri “figli della Patria” divinizzata.
È merito di Agamben avere documentato che l’individuazione e la discriminazione del corpo estraneo ebbero luogo nella Germania nazista quando i tedeschi condivisero l’idea hitleriana secondo cui il popolo ariano doveva rendersi biologicamente puro tramite una politica della separazione. In questo senso la comunanza di destino – “il popolo” – sancita dalla comune eredità cromosomica fu un enzima vero del nazionalsocialismo: al destino biologico del popolo credettero sinceramente tanto i tedeschi che gli ideologi del Partito. Il genocidio non venne “giustificato” da un discorso “di propaganda”, nessuno raccontò una menzogna (la subumanità degli ebrei) per prendere il potere e per conservarlo. La disumanizzazione degli ebrei venne preceduta dall’identificazione di un “noi” e di un “loro”, fu preparata e giustificata (resa giusta e plausibile) da una teoria scientifica della razza che aspirava a un contenuto di verità.
Ma la tesi biopolitica di Agamben guarda anche in avanti, verso i campi di detenzione e di tortura che a partire dagli anni Novanta si sono moltiplicati fino a diventare un tratto stabile e costitutivo della contemporaneità. «Tutto avviene,» scrive Agamben, «come se, di pari passo al processo disciplinare attraverso il quale il potere statale fa dell’uomo in quanto vivente il proprio oggetto specifico, si fosse messo in movimento un altro processo, che coincide grosso modo colla nascita della democrazia moderna, in cui l’uomo vivente si presenta non più come oggetto, ma come soggetto del potere politico.» La “nuda vita”, dunque, come luogo della libertà e al tempo stesso dell’asservimento. «Prendere coscienza di questa aporia non significa svalutare le conquiste e i travagli della democrazia, ma provarsi una volta per tutte a comprendere perché, nel momento stesso in cui sembrava aver definitivamente trionfato dei suoi avversari e raggiunto il suo apogeo, essa si è rivelata inaspettatamente incapace di salvare da una rovina senza precedenti quella zoè [la vita biologica] alla cui liberazione e alla cui felicità aveva dedicato tutti i suoi sforzi.»
I campi di sterminio furono il luogo in cui, nel nuovo orizzonte biopolitico, il potere tracciò una linea che separava l’umano dal non-umano. Gli ebrei sopravvissuti ai campi videro la nuda vita, dovettero osservare lo spettacolo della propria desoggettivazione e poi tornare soggetti. Videro coloro che nel gergo del campo di sterminio venivano definiti i “musulmani”: viventi senza più parola, volontà e spirito; i primi ad essere selezionati per le camere a gas. I “musulmani” assistettero (ammesso che fossero capaci di assistere nel senso che diamo abitualmente a questa parola) alla loro desoggettivazione completa, fino alla morte nel mattatoio; vennero umanamente annullati e poi uccisi da chi nel farlo non sentiva di commettere un omicidio, da chi li tosava per vendere i loro capelli come materiale tessile.
Non è possibile non percepire una macabra aria di famiglia leggendo il coro levatosi nel 2016 sui social media italiani per protestare contro il recupero dei settecento cadaveri nel canale di Sicilia («soldi buttati, perché non immessi nel circuito produttivo italiano»). Se Auschwitz ci riguarda ancora oggi non è perché i nazisti, come spesso si dice, siano “diventati” delle belve rivelandoci la tenebra che si nasconde nel cuore dell’uomo: ma perché questo cuore e questa tenebra sono il luogo di una decisione che viene compiuta tuttora, con conseguenze variabili, quando gruppi sociali inermi vengono esposti fuori dalla legislazione e dai “diritti umani”. Accadeva quando Homo Sacer venne concepito (al tempo degli stupri etnici in Bosnia), sta accadendo con i “migranti” e con gli stranieri in arrivo da paesi poveri: a bordo della nave Diciotti, a Chemnitz, alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, a Macerata, nei centri di detenzione libici assistiamo a una produzione di paria a livello planetario. La legge si ritrae da certi gruppi umani, li espone come nuda vita disconoscendo loro la titolarità dei “diritti”: non più nell’ottica biologico-razzista dei totalitarismi storici europei, ma nell’ottica di quel pensiero economico che – secondo un’illuminante intuizione di Walter Benjamin, sviluppata in più scritti dallo stesso Agamben – è diventato la fede del nostro tempo. Agli appelli razzisti del Terzo Reich («La rivoluzione nazional-socialista vuole fare appello alle forze che tendono all’esclusione dei fattori di degenerazione biologica e al mantenimento della salute ereditaria del popolo», scrisse nel 1942 l’Institut Allemand di Parigi in una pubblicazione intesa a divulgare i principi della politica eugenetica) fanno eco, nella nuova prospettiva economica, gli Stati Uniti che hanno chiamato America first il Federal Budget 2018 e i movimenti della destra xenofoba tedesca che dopo la caccia all’uomo per le strade di Chemnitz hanno argomentato «prendono i soldi e il lavoro che spettano a noi».
Nella Germania di Weimar, con le fasce più deboli ridotte allo stremo, la biopolitica si volse in tanatopolitica in un orizzonte dominato dalla serie biologia-popolo-destino: discriminando ed esponendo alla morte una minoranza “razziale”. In Italia e negli Stati Uniti, in Ungheria, in Austria, nella ex Germania Est non avrebbe molto senso parlare oggi di popolazioni “allo stremo” (anche se alcuni quartieri di San Diego, vicino al confine con il Messico, sono baraccopoli a cielo aperto). Però – come recentemente segnalato da Annamaria Rivera su questa stessa rivista – il contesto attuale ricorda da vicino quello descritto da Walter Laquer nel suo La Repubblica di Weimar: la paura della proletarizzazione da parte dei ceti medi, alta disoccupazione, calo dei salari e dei sussidi statali, scarse prospettive occupazionali per i laureati. A cambiare è l’operatore tanatopolitico: ciò che rovescia la gestione della vita in abbandono alla morte e che giustifica (rende giusto, plausibile) il disconoscimento dei diritti. “Umano”, da noi, è ciò che ha potere d’acquisto e partecipa al mercato: e in questo senso la pubblicità ubiqua e incessante ha lo stesso valore propagandistico dei documentari fascisti. In un orizzonte dominato dal culto del PIL sembra accadere quanto Rosi Braidotti descrisse in Soggetti nomadi già nel 1994: «tutti uniti nelle nostre rispettive differenze purché la nostra valuta sia la stessa, il nostro standard di vita sia comparabile e i nostri abiti di design, naturalmente, siano made in Italy (anche se prodotti in stabilimenti delocalizzati)».