Recensioni / Gli uccelli sono più bravi di me

«Può aspettare un momento che appoggio il sassofono? Stavo provando». La voce dall'altra parte del telefono - e dell'oceano - è quella di Roscoe Mitchell, classe 1940, polistrumentista e uno dei fondatori dello storico Art Ensemble of Chicago. È la formazione che ha scritto parecchi capitoli dell'avanguardia afroamericana, nel nome della Great Black Music (la grande musica nera, ndr), tra free jazz e radicalità espressiva, ma con una finestra sempre aperta su un esotismo panafricano, in un gioco a timpano tra progresso e scardinamento, primitivismo e (auto) ironia.
Lester Bowie e Malachi Favors (altri due storici membri del gruppo) non ci sono più, Joseph Jarman si è ritirato dalle scene, ma Roscoe Mitchell e Famoudou Don Moye (batteria e percussioni), pur mantenendo i loro progetti e le loro collaborazioni al di fuori dell'Art Ensemble, proseguono la storia di un gruppo capace - come ha scritto Paul Steinbeck nel suo Grande Musica Nera. Storia dell'Art Ensemble of Chicago (tradotto recentemente da Giuseppe Lucchesini per Quodlibet, a cura di Claudio Sessa) - di costruire «un proprio modello sociale, basato sui principi della cooperazione e dell'autonomia personale».
L'Ensemble sta per celebrare il suo (primo) mezzo secolo di febbrile attività - passato tra sale di incisione e palcoscenici di tutto il mondo - con una tournée europea che toccherà anche due città italiane, Cormòns (27 ottobre) e al Teatro dell'Arte di Milano per la rassegna JazzMi (1° novembre). Al Conservatorio di Santa Cecilia, a Roma, lunedì 22 Mitchell terrà un workshop di improvvisazione con gli allievi di Daniele Roccato e incontrerà il pubblico in occasione della presentazione del libro Grande Musica Nera. A fine mese, infine, uscirà un cofanetto a tiratura limitata e numerata di 21 cd, registrati per la casa discografica Ecm tra il 1978 e il 2015.

Mitchell, che cosa stava provando?
«Sto scrivendo una nuova partitura su commissione e provavo dei passaggi al sassofono soprano».

Per chi sta componendo? «Per l'Ensemble InterContemporain, l'orchestra da camera fondata a Parigi da Pierre Boulez, direttore, compositore e saggista legato alla contemporanea».

*Di che cosa si tratta?
«Aspetti che le faccio sentire un frammento (a questo punto fa partire una registrazione sul computer e la interrompe dopo un paio di minuti, ndr). Questa era la trascrizione per orchestra del mio assolo sul brano Sustain and Run dall'omonimo disco registrato nel 2016».

Suona e prova molto ancora oggi?
«Faccio quello che reputo sia necessario. La partitura verrà eseguita a Parigi».

A proposito di Parigi, il nome Art Ensemble of Chicago è nato proprio lì sul finire degli anni Sessanta. Avete vissuto due anni nella capitale francese. Che atmosfera si respirava allora?
«C'era gente da tutto il mondo. I1 festival panafricano fu organizzato non a caso lì. A Parigi allora c'erano tutti. Johnny Griffin, Dexter Gordon, Hank Mobley, Don Byas... Era come andare a scuola tutti i giorni e per tutto il giorno. Si suonava senza tregua. E si studiava».

Lei studia molto ancora oggi però.
«Sono musicista. È il mio mestiere».

A cosa la fa pensare la parola «tradizione?».
«È una parola che serve prima per studiare e poi per andare avanti sulla propria strada. La tradizione è la nostra storia: spiritual, marching band, gospel... Alla fine però, dopo aver studiato e assimilato quelle stesse cose, Lester Young e Charlie Parker suonavano in maniera completamente diversa l'uno dall'altro. Questo è l'obiettivo».

Lei ha studiato con Richard Muhal Abrams, innovatore del free jazz.
«Con Muhal studiavi la vita. Si parlava. E dopo aver parlato si suonava».

Quando lei ha iniziato, e per molti anni dopo, il jazz d'avanguardia era legato ai movimenti politici di protesta. Ora non è più così: come vede il jazz?
«Quegli anni sono stati interessanti da quel punto di vista, ma adesso il mio mestiere, come le dicevo, è quello del musicista. Ora faccio esclusivamente quello».

Musica a parte, per il suo lavoro si ispira anche ad altri generi di suoni? Della natura per esempio?
«Sa qual è la cosa più difficile per un musicista? Uscire e suonare assieme alla natura. È difficile perché i suoni della natura sono perfetti e noi umani non possiamo fare di meglio. Prenda il canto degli uccelli. È sempre giusto, perfetto».

Visto che siamo in tema, le chiediamo anche del silenzio, allora.
«È un concetto che mi interessa. I miei studenti, ma anche molti musicisti di jazz, non usano il silenzio. Le loro improvvisazioni sono a flusso continuo, senza interruzione. Bisognerebbe chiudersi in una stanza, suonare un'unica nota e seguirne l'evoluzione».

Che cosa insegna ai suoi studenti?
«A mantenere sempre una grande apertura mentale. Non solo in musica».

Composizione e improvvisazione sono due lati della stessa cosa?
«Per essere un buon improvvisatore bisogna conoscere la composizione. L'improvvisazione è una composizione in tempo reale. Accelera il tempo della scrittura. Per questo faccio trascrizioni di miei assoli e le adatto poi alle formazioni strumentali più diverse, dal quintetto d'archi fino all'orchestra da camera».

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