Recensioni / Un saggio di Melandri, Cartesio cade in Trappola

La scolastica medioevale, che fondava ogni discorso intorno alla natura divina sulla analogia, sapeva maneggiare con consapevolezza questo strumento. Sapeva che si poteva parlare analogicamente “per attribuzione” e cioè attraverso l’applicazione disinvolta di un medesimo attributo a realtà diverse: per esempio, si dice che è buono un cibo, che è buona un’azione, che è buona la virtù e che è buono Dio. “Buono” ha lo stesso significato in tutti e quattro i casi? Certamente no, ma tant’è, di meglio non si può fare, e per intanto possiamo unificare quattro cose diverse sotto uno stesso rapporto… E sapeva che si poteva parlare analogicamente per “proporzionalità”: ad esempio si poteva parlare della saggezza di Socrate e della saggezza di Dio nel senso che la saggezza umana sta al pensiero di Socrate come la saggezza divina sta al pensiero di Dio. In questo secondo caso l’analogia si può esprimere in una formula (A sta a B come B sta a C) che è poi la formula della sezione aurea.
L’analogia dunque è un calcolo. Ma è un calcolo tutto qualitativo, spesso basato sull’intuizione, che ci fa scoprire parentele inedite. Talora viene riconfermata poi da altri calcoli e più precisi, altre volte no, il pensiero analogico pone una sorta di cortocircuito tra le cose, getta una luce improvvisa, sciabola metafore e similitudini… E poi? Una mela è una mela, questa sì che è logica, rigorosa relazione di identità. Ma “il bello e lo splendor del vero” cosa vuol dire? Tutto e niente, più spesso niente che tutto (salvo per chi ci crede senza bisogno di prove e allora vedete che l’analogia non è una prova, ma la formulazione emotiva che diamo a ciò che non è altrimenti probabile). Per questo il pensiero scientifico moderno è stato diffidentissimo nei confronti delle analogie. E più il pensiero diventava scientifico (e più diventava moderno) più la caccia alle analogie diventava una specie di caccia alle streghe metafisica. Bollare un ragionamento, una prova, un suggerimento di relazioni come analogico significava espungerlo dalla repubblica delle scienze.
Questa impopolarità della analogia è tale, ai giorni nostri, che costituisce già un atto di coraggio intitolare come fa Enzo Melandri il suo libro La linea e il circolo. E la provocazione appare tanto più insopportabile quando l’autore organizza per oltre mille pagine, una sorta di processo a tutto il pensiero occidentale (con qualche uscita sul pensiero orientale), dai presocratici al neopositivismo con una estrema sottigliezza argomentativa, traducendo in formule logiche anche le teorie filosofiche meno formalizzate e dimostrando alla fine che il calcolo analogico domina in modo insopprimibile la storia della filosofia, della logica formale, della metodologia scientifica, della matematica. “Occorre  parlare proprio di quello di cui ci sembra dover tacere”, afferma Melandri, capovolgendo e parafrasando Wittgenstein. L’analogia ha un indiscusso valore euristico. Assodato. Ma ha anche valore dimostrativo. Che lo abbia o no, tutte le dimostrazioni architettate dal pensiero umano si reggono su un calcolo analogico, su un principio di simmetria che collega tra loro cose che appaiono e spesso sono contrarie. Ma è che la analogia (come appare alla fine del libro) non può che confluire nella dialettica e la dialettica, inverando le aspirazioni del calcolo analogico, si pone come l’unico modo di comprendere e risolvere gli opposti: e non in astratto, ma visti in continuo riferimento alle situazioni concrete in cui si presentano. In questa serrata argomentazione che confluisce in una definizione (introduttiva a una ricerca futura) di un materialismo dialettico dogmatizzato, l’analogia si presenta come un preambolo neutrale che muove il pensiero nei suoi primi passi e si promuove come analogia “buona” quando è analogia “rivoluzionaria”, quando cioè non riporta al punto di partenza ma scatena nuove contraddizioni, conduce “oltre l’analogia”, prelude a “un nuovo assetto razionale”.
È difficile rendere conto in poche righe della complessità, della difficoltà, del rigore provocatorio e dell’impressionante erudizione con cui l’autore ci conduce, senza mai tirare il fiato, per i meandri della sua argomentazione, obbligandoci a ripensare le soluzioni acquisite, lasciandoci spesso delle perplessità, mai apparendo banale o scontato. Libro coraggioso (positivamente donchisciottesco in questa sua lotta contro i mulini “rimossi” della falsa coscienza delle discipline formali e riscoperti come giganti veraci). La linea e il circolo non consente una semplice lettura e impone – a chi vuole pensare – numerosi confronti. Confronti non facili, perché il libro stesso è costruito come una sterminata trappola retorica, intessuta di analogie “buone” e, nel ridurre il pensiero occidentale a una serie di aporie, ci suggerisce che di tutto può essere predicato il proprio contrario (vittima predestina la logica). Cosicché nella sua perorazione contro la chiarezza e la semplicità che generano il semplicismo soddisfatto, il libro assume anzitutto una sua satanica funzione terapeutica.