Recensioni / A tavola la rivalità tra Francia e Italia è questione di etichetta

Cuisines Croisées
«Il sapiente è chiamato così da sapore», scriveva nel secolo XII Isidoro di Siviglia, perché il gusto è un fenomeno che molto ci racconta del mondo in cui viviamo e del modo in cui vivono i nostri vicini, primi tra tutti coloro che con noi condividono la creazione di un immaginario fondato sul cibo. Dal 20 al 26 novembre prossimo anche a Parigi si celebra la seconda Settimana della cucina italiana nel mondo. Qui la table è (come da noi) una questione identitaria. Ma (a differenza che da noi), è anche una questione di Stato e di etichetta. L'art de vivre à table à la française (a cui il prossimo anno verrà dedicata un'ala del nuovo Hotel de la Marine che domina la più imponente place della Capitale, quella della Concorde) coincide con Le repas gastronomique des Français, patrimonio Unesco perché elemento costitutivo della vita, della cultura, persino delle case hausmaniennes parigine, dove solitamente la cucina è molto piccola, spazio di mero servizio e il cuore della casa è il double salon, dedicato appunto al repas (di cui, nella tradizione bourgeois, non si occupavano i padroni, ma i cuisiniers relegati in pochi metri). Film, libri ed eventi raccontano in queste settimane mutazioni e connessioni, ma anche abissali distanze tra i cugini diversi che hanno codificato il modo in cui si produce, si trasforma e si consuma il cibo in tutto il mondo.
Una questione di Gusto.
Nel suo manifesto teoretico del Gusto, pubblicato per l'enciclopedia Einaudi nel '79 e recentemente pubblicato da Quodlibet, il filosofo dell'Homo sacer (maledetto) Giorgio Agamben offriva una inquietante quanto profonda definizione del gusto, non un rassicurante piacere ma al contrario il segno dell'abisso che ci separa dalla vera conoscenza e dalla vera bellezza (Hegel diceva: «non si può degustare un'opera d'arte come tale, perché il gusto non lascia libero l'oggetto libero per sé, ma a a che fare con esso in modo realmente pratico, lo dissolve e lo consuma»). In sostanza, il gusto non ha a tanto che fare con il piacere o la bellezza, al contrario è una mappa che ci mostra come viviamo e consumiamo. E per consumare con giudizio, è bene dimenticare un approccio al gusto come esperienza frivola e priva di significato (cose di cui siamo circondati e per le quali fenomeni come diverse trasmissioni tv di chef hanno qualche responsabilità) e cominciare a fare davvero esperienza di ciò che è bello. Nicola Perullo, filosofo estetico e docente di filosofia del Cibo all'Università di Pollenzo, occupandosi della scienza della conoscenza sensibile connessa al gusto, è tra i principali divulgatori dell'esperienza al gusto, che non comincia né termina a tavola: «non educhiamo al gusto, ma educhiamo con il gusto, e non solo a tavola. La bellezza non è nell'oggetto, è piuttosto lo stupore verso ciò che accade. Il gusto non è il buon gusto autoreferenziale che ci insegnano nelle scuole alberghiere, quello statico e colonizzatore che nasce in Francia con Savarin, ma è un processo con il quale impariamo ad imparare. Il gusto non è il bello e il buono frivoli, ma una responsabilità». Da questa cesura comincia il grande e amichevole clash tra due culture, quella italiana e quella francese, negli orti e sugli scaffali delle épiceries, nei bistrot e nelle case, a tavola e in cucina.[...]