Recensioni / Flaubert, precursore della modernità

«Senza Flaubert, non avremmo avuto Marcel Proust in Francia, né James Joyce in Irlanda. In Russia, Cechov non sarebbe stato Cechov».
La nuova edizione di Bouvard e Pécuchet (Quodlibet, traduzione di Gina Martini, postfazione di Ermanno Cavazzoni) conferma in pieno il giudizio di Nabokov: il solco tracciato da questo romanzo si propaga per tutto il secolo successivo, fino a lambire il nostro.
Un lavoro smisurato
Bouvard e Pécuchet si incontrano per caso, e sempre per caso scoprono di avere i medesimi interessi. Sono entrambi copisti, il grado zero della scrittura, e condividono l’ambizione di apprendere le molteplici scienze e discipline che l’umanità ha distillato nei secoli. Ritiratisi in campagna grazie a un lascito, i due saggiano via via gli innumerevoli campi dello scibile, suscitando il sospetto e l’irrisione degli abitanti della zona.
Il testo si costruisce attraverso una miriade di citazioni: dalla botanica ai tentativi d’educazione di due fanciulli, passando attraverso la chimica, la medicina, la geologia, la religione, il teatro, lo spiritismo, senza scordare politica, museologia e letteratura. I due copisti si pavoneggiano con belle frasi, per poi imbrogliarsi scoprendo che i dotti non sono mai d’accordo su nulla. I patetici tentativi di mettere in pratica quanto appreso hanno il medesimo andamento: iniziale entusiasmo; battibecchi assortiti nel sostenere questa o quella posizione; prime avvisaglie di sconforto; da ultimo, inevitabile e catastrofico fallimento, in un crescendo di calamità che rendono il romanzo imprevedibile e spassoso.
L’esito è comico, certo, ma anche sottilmente tragico: applicata pedissequamente, infatti, qualsivoglia teoria si rivela sterile, perché senza esperienza della vita e delle cose nulla funziona a dovere. Si calcola che siano stati oltre 1.500 i libri letti da Flaubert per selezionare le centinaia di citazioni che costellano i dialoghi dei due dilettanti del sapere. Un lavoro smisurato.
Due splendidi idioti
Uno dei personaggi de La nausea di Sartre, l’Autodidatta, legge le opere che trova in biblioteca per ordine alfabetico d’autore, rinunciando a qualsivoglia criterio selettivo; ne L’uomo senza qualità di Robert Musil, il generale Stumm von Bordwehr cataloga le principali correnti filosofiche interpretandole come eserciti contrapposti. Su un fronte gli empiristi, sull’altro i razionalisti; di qui gli idealisti, di là i materialisti. E non viene mai a una, ovviamente, perché le idee filosofiche non obbediscono a ordini e schieramenti, prendendosi gioco di lui. L’Autodidatta e il generale sono con ogni probabilità altrettanti omaggi a Bouvard e Pécuchet. Ma nel romanzo di Flaubert c’è un elemento ulteriore, che prende le mosse dal genio di Cervantes: Bouvard è piuttosto basso e atticciato; Pécuchet decisamente allampanato e secco.
È un evidente richiamo alla più famosa coppia della letteratura, Sancho Panza e don Chisciotte. Il primo pratico e schietto, attento ai bisogni elementari della vita, saggio nella sua semplicità; il secondo perso nei romanzi cavallereschi, in cerca di fanciulle da salvare e imprese eroiche per immortalare il proprio casato; una coppia parodica giocata sul contrasto assoluto dell’aspetto fisico e delle attitudini.
Facendo un balzo d’anni, anche il duo comico per eccellenza, Stanlio e Ollio, ricorda le fattezze di Bouvard e Pécuchet, che si distinguono semmai per il carattere: «Uno era fiducioso, distratto, generoso; l’altro discreto, meditativo, economo».
Affrontando diversi progetti e discipline, sostengono idee opposte, ma i loro intenti falliscono sempre e comunque; ce la mettono tutta per farsi passare per saggi, ma di fatto restano due splendidi idioti. Non a caso il medico del paese suggerisce di confinarli in manicomio.
Lo sciocchezzaio
L’8 maggio 1880 Flaubert muore, lasciando l’opera incompiuta. Scorrendo l’abbozzo dei temi a seguire, scopriamo che, dopo averle tentate tutte, ed essersi meritati la fama di bislacchi, i due amici si sarebbero risolti a copiare quel che andavano incrociando nelle loro scorribande: fogli e bugiardini, stralci da questa o quell’arte minore, fogli di gazzette piuttosto che carte private, appunti, réclame. Dopo l’idiozia delle scienze e dottrine, il secondo tomo del romanzo avrebbe affrontato l’idiozia umana tout court, con l’obiettivo di dar vita a uno «sciocchezzaio» sconfinato. Flaubert voleva fornire la prova definitiva dell’inclinazione umana a metter nero su bianco ogni tipo di fesseria, anche la più improbabile e paradossale.
Qualche assaggio? «Appena un francese passa la frontiera, entra in territorio straniero» («Corriere della Domenica», 15 dicembre 1857). «I pescatori sono meno belli dei contadini» (Blair, Lezioni di retorica). «Come rimedio alla sterilità, moglie e marito mangino escrementi d’asino fritti» (Daremberg, La medicina e storia delle relative dottrine).
Se Flaubert si era prefisso l’immane compito di salvare l’idiozia umana dall’oblio, trascrivendo le frasi più assurde mai tracciate su carta, un progetto analogo, sia pur in un contesto tragico, lo troviamo ne Gli ultimi giorni dell’umanità, opera nella quale Karl Kraus condanna la follia della Prima Guerra Mondiale assemblando citazioni da periodici e bollettini militari.
Il piombo fuso per stampare quelle parole era lo stesso metallo impiegato per pallottole e granate. Altro richiamo: in Pierre Menard, racconto di Borges, un immaginario scrittore - non a caso francese - trascrive parola per parola il don Chisciotte di Cervantes.
Pur con frasi identiche, l’opera risulta differente per via del tempo trascorso dalla stesura dell’originale e del mutato contesto in cui prende vita la copia.
Un ulteriore omaggio a Bouvard e Pécuchet, opera incompiuta fino a un certo punto: l’idiozia non ha mai smesso di manifestarsi, anzi cresce a vista d’occhio grazie alle micidiali moltipliche dei social.
In questo senso i due copisti vanno intesi come i veri precursori del nostro tempo. E se una volta Flaubert ebbe a dire: «Madame Bovary sono io», oggi forse ci tocca ammettere che Bouvard e Pécuchet siamo noi.