Recensioni / La tristezza ti assale? Allora sei un genio!

Definire, o anche soltanto cercare di capire, cosa sia la malinconia non è semplice. Nelle sue varianti di «melanconia», o nelle forme antiche di «maninconia, melancolia», questa emozione ha attirato capitoli di storia filosofica, letteraria e sociale oltre che medica. E anche altro. Ora è condizione umana, poi appare come atteggiamento artistico, infine diventa la cifra di un quadro psicopatologico che rimanda a situazioni maniaco-depressive. Il termine nacque con il medico greco Ippocrate, il quale intendeva la salute di un corpo e i caratteri umani come il risultato di un equilibrio (o squilibrio) di quattro "umori": sangue, flegma (muco delle vie respiratorie), bile gialla e nera. Tesi che aveva affinità, notò Vere Gordon Childe in The Aryans: A Study of Indo-European Origins (Londra 1.926), con le concezioni degli antichi popoli indoeuropei, i quali abbinavano ai quattro umori i cicli della Terra, a cominciare dall’alternarsi delle stagioni. Il termine greco melancholía nasce da mélas, mélanos (nero), e cholé (bile): chi ne soffriva doveva cercare la causa della propria condizione nel prevalere di quell’umore oscuro causa di tristezza.
Con il cristianesimo la «melancholla» diventa accidia, sorta di negligenza nell’esercizio delle virtù; addirittura finisce tra i sette peccati capitali. Dante la intende come quell’«amore lento» di chi si rivolge a Dio e agli altri con fatica, estenuato. Impossibile elencare coloro che ne soffrirono o la trattarono nelle loro opere, giacché si dovrebbe andare dall’inglese Robert Burton che nel Seicento le dedica, con l’Anatomia della malinconia, una sorta di enciclopedia, via via sino a Keats (Ode on Melancholy) o allo «spleen» di Baudelaire o ai nostri giorni, quando diventa depressione. L’abbinamento tra l’umore nero e l’uomo di genio si trova in un testo attribuito ad Aristotele, il trentesimo dei Problemi del corpus del filosofo; ma, con buone probabilità, fu scritto da qualcuno della sua scuola. Perché, si chiede l’anonimo autore, tutti gli uomini eccezionali nell’arte o nella-letteratura, in politica o nel pensiero hanno un temperamento melanconico? Tali erano, riferisce lo scritto, Empedocle, Platone, Socrate e gran parte dei poeti.
L’iconografia sull’argomento è ricchissima, di certo la più fascinosa immagine l’ha realizzata agli inizi del Cinquecento Albrecht Dürer con la celebre incisione Melencolia I. Un angelo al centro della scena, che guarda altrove con occhi pensosi, ha la guancia sorretta dal pugno; alcuni strumenti sono sparsi ai suoi piedi e un cane emaciato evita l’osservatore. Dietro la figura alata vi sono ancora oggetti simbolici: scala e clessidra, bilancia e campana; soprattutto un quadrato enigmatico con giochi numerologici complessi, anzi magici. C’è anche altro, ma questa raffigurazione nel 1923 fu oggetto di un saggio di Erwin Panofsky e Fritz Saxl, intitolato appunto La «Melencolia I» di Dürer che ora è disponibile da Quodlibet a cura di Emiliano De Vito con introduzione di Claudia Wedepohl.
Il saggio affronta con (allora) inediti strumenti critici un enigma dell’arte, mostrando il metodo del circolo di Warburg, di cui è una sorta di sintesi programmatica. Panofsky e Saxl ripercorrono le fonti antiche, non si fermano ai nessi con l’astrologia e la medicina, con Marsilio Ficino e le rappresentazioni dei figli dei pianeti, e giungono a stabilire che essa non è temperamento ma designa uno stato della mente. Benjamin, Cassirer e da noi il filologo Giorgio Pasquali furono entusiasti. Che dire? Tolstoj scrisse in Anna Karenina: «Un desiderio di desideri: la malinconia».