Recensioni / Lo specchio di un Paese carico di speranze perdute

«In quegli anni gli inverni furono molto lunghi. Uscivo di prima mattina su di un terrazzo, fra i tetti coperti di neve, a prender carbone per la stufa. Dalla finestra, vedevo tetti, cortili, fumi, di una Milano vecchia, semidistrutta; poi nuova. Le rovine che avevamo intorno come l'allegoria di un riscatto possibile sparivano per dar luogo ad una città opulenta e meschina». Inizia così, in modo folgorante, Dieci inverni (1957) del poeta e scrittore Franco Fortini (1917-1994), all'epoca criticamente vicino al Psi. Ma ben presto perde d'intensità, incartandosi in una prosa greve e opprimente, specchio dell'Italia che fissa sulla pagina: un Paese carico di speranze perdute, pietrificato dalla Guerra fredda, percosso dalla restaurazione.
In realtà, questi «contributi ad un discorso socialista» (articoli e saggi brevi), ora riproposti da Quodlibet, riflettono una profondità e varietà d'interessi non comuni. Fortini passa in rassegna temi alti e bassi, letterari e politici, quotidiani e di lunga durata (Kafka, Camus, l'eredità del «Politecnico» di Vittorini, l'estetica di Lukács, un discorso di Pietro Nenni, Ladri di biciclette, la disputa fra Roderigo di Castiglia - alias Palmiro Togliatti - e Norberto Bobbio su comunismo e libertà); sempre sforzandosi di «dire la verità», inquadrandola sorte dei singoli nei «destini generali».
Va detto, però, che questo «diario in pubblico» di un marxista non ortodosso mostra tutta la propria inadeguatezza, già allora, a interpretare proficuamente lo spirito del tempo. A una sacrosanta pars destruens (le aberrazioni dello stalinismo, anche nostrano) non si accompagna infatti una coerente pars construens («riformista» resta per lui una parolaccia, al pari di «borghese»). Cosicché, in assenza di una chiara alternativa, l'inquietudine di Fortini sconfina spesso nel solipsismo predicatorio. Per non parlare dello stile prolisso e nebuloso. Egli stesso firmerà nel '74 un elogio dello «scrivere oscuro»: la chiarezza, diceva, «la so usare, ma non voglio usarla. Non parlo a tutti. Parlo a chi ha una certa idea del mondo». È il paradosso di tanti intellettuali militanti: ansiosi di rigenerare la società, ma prigionieri di un linguaggio per iniziati. Curiosamente, ma non troppo, uno dei contributi più limpidi del libro è un reportage sui profughi della Germania comunista, pubblicato nel1949 dal «Mondo» di Mario Pannunzio: un settimanale «borghese», elegante e ben scritto, le cui annate ancor oggi rappresentano uno scrigno prezioso.
Perché, invece, Dieci inverni appare in gran parte obsoleto? Dobbiamo immergerci nell'arretratezza della sinistra dell'epoca. Il partitone togliattiano era un pachiderma imbalsamato, ma il Psi di Nenni, alla vana ricerca fra il '48 e il '56 di una «terza via» fra Dc e Pci, fu forse ancor peggio: una copia sbiadita del Pci senza averne il prestigio, la forza elettorale e l'impianto organizzativo. Questo il deprimente contesto in cui si trovò a operare il pur ferrato e coltissimo Fortini. Il quale, come ha documentato Mariamargherita Scotti, scontò una contraddizione debilitante. Unico intellettuale «a essere organicamente legato al Partito socialista nel primo decennio del secondo dopoguerra», si sentiva nondimeno «orfano del cattivo padre comunista», ricercandone continuamente l'abbraccio (Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura. 1953-1960, Ediesse, 2011).
Insomma, il poeta fiorentino era sì un «ospite ingrato» della sinistra, ma non un eretico, in grado cioè di rifondare una dottrina. Fortini, ha osservato Alfonso Berardinelli in un suo profilo d'annata, non capì mai che l'unica via per uscire «da sinistra» dal lungo inverno staliniano era quella di riscoprire la lezione dei grandi critici del marxismo e della filosofia della storia hegeliana: Victor Serge, Simone Weil (che pure aveva tradotto), George Orwell, Arthur Koestler, il nostro Nicola Chiaromonte. Al contrario, quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, sentì addirittura il bisogno di proclamarsi comunista. Fuori tempo massimo.