Recensioni / La guida alla Milano di Gio Ponti

«Se fosse un regista, Gio Ponti sarebbe Stanley Kubrick e non Lars von Trier» scrive Stefano Boeri nella prefazione al volume Gio Ponti e Milano, edito da Quodlibet e curato da Paolo Rosselli insieme a Salvatore Licitra.
Un parallelismo che Boeri individua nell’opera di un Ponti architetto la cui cifra stilista è proprio «l’assenza di continuità tra una narrazione e l’altra, nell’eclettico spiazzamento tra paesaggi, trame e coloriture, come un viaggio nel cosmo delle possibilità. Ogni opera è un mondo a sé».
Chiusa la prefazione, Gio Ponti e Milano è un libro da leggere al contrario, partendo dal fondo, dalla mappa delle architetture di Gio Ponti a Milano, per scoprire magari che dietro casa, tra un benzinaio e un supermercato aperto 24 ore su 24 c’è uno stabilimento progettato da Ponti con Luciano Baldessari nel 1935, quando Milano Nord era zona industriale e in via Legnone, all’angolo con viale Jenner, si produceva il cioccolato dell’Italcima.
Un po’ più a sud, verso San Siro, al numero 19 della mappa delle architetture di Ponti a Milano c’è il quartiere Harar-Dessié (1951), fatto di case grandi, alte cinque piani, e altre piccole, di un piano solo. Quelle di Ponti sono due, una rossa e bianca, l’altra bianca e gialle, progettata in collaborazione con Gigi Gho’. «A Ponti premeva contrapporsi sia alla moda, crescente, del finto paese, del teatrino architettonico, sia a quella del falso naturalismo nelle composizioni planimetriche» scrive Lisa Licitra Ponti, autrice dei testi.
Un po’ più a sud, verso San Siro, al numero 19 della mappa delle architetture di Ponti a Milano c’è il quartiere Harar-Dessié (1951), fatto di case grandi, alte cinque piani, e altre piccole, di un piano solo. Quelle di Ponti sono due, una rossa e bianca, l’altra bianca e gialle, progettata in collaborazione con Gigi Gho’. «A Ponti premeva contrapporsi sia alla moda, crescente, del finto paese, del teatrino architettonico, sia a quella del falso naturalismo nelle composizioni planimetriche» scrive Lisa Licitra Ponti, autrice dei testi.
E così via, per un totale di 36 architetture che sono altrettanti film girati a Milano da Gio Ponti, la sua visione della città, dell’architettura e della modernità da scoprire puntualmente, oppure seguendo uno dei tanti itinerari che si possono costruire a partire da questo piccolo volume per architetti, turisti e milanesi che, libro e cartina alla mano, vogliono conoscere una città che è lontana dal Bosco Verticale e dall’Apple Store e che pure è la stessa cosa, senza frizioni, terreno «di una continua sperimentazione» scrive Boeri.
C’è l’itinerario delle case di Gio Ponti a Milano: da quella palladiana di via Randaccio (1920), alle «tipiche», coloratissime case milanesi come quella di via Domenichino (1930), fino alla casa dimostrativa di via Dezza 49 (1957).
Oppure i grandi palazzi, con i nuovi materiali che danno nuova dignità agli interni come il grattacielo Pirelli (1956) con i suoi pavimenti in linoleum giallo e nero, ma anche il palazzo Montecatini II (1951) o il Trifoglio del Politecnico di Milano (1956), che raccontano di Ponti designer totale, che progetta architetture e mobili, mentre «dirige riviste, fa l’editorialista sui giornali, si occupa di politica, scrive libri sulla qualità dello spazio della città e dell’architettura». In questo senso possiamo considerare Ponti regista, «di intelligenze e costumi».