Recensioni / Problemi etico-pubblici della cultura digitale - Recensioni

Le ricerche raccolte in questo volume trovano la loro cifra unificante nell’esercizio di una pratica, più che nella disamina di uno specifico nodo concettuale. Vale a dire: piuttosto che da un certo problema da esplicare, il tema che anima queste pagine è dato da una presa di posizione. Da un atteggiamento, se si vuole, comune ai differenti saggi presentati, e che dunque l’autore assume di fronte a problemi diversi, a scorci sui plessi concettuali più vari – dalla questione della tecnica a quella del diritto naturale, dal rapporto tra fede e antropizzazione a quello tra androide ed empatia in un romanzo di Philip Dick. Il carattere anzitutto pratico di questo impegno si traduce in una sorta di vibrazione, che percorre l’esperienza di lettura: un fremito che il lettore in qualche modo avverte, mentre segue l’inesausto ritornare del discorso su alcuni luoghi classici della cultura occidentale antica e moderna (principalmente, il testo biblico, l’Antigone e l’opera di Nietzsche e Heidegger). Vibrazione, appunto: poiché mentre questi luoghi restano ogni volta inesauriti nella loro fecondità per il pensiero, l’esplicita assunzione di una responsabilità etica da parte dell’autore comporta che l’argomentazione non possa stancarsi di ritornare su di essi, nel tentativo di ricavarne ancora un altro puntello per la definizione dell’Uomo che deve rimanere.
Il movimento dell’analisi è quindi di rimbalzo: dalla lettera del testo all’indicazione di un gesto di resistenza – meglio, alla sollecitazione ad esso per coloro che, oggi, hanno ancora da scegliere tra l’esigenza di tenersi all’uomo che siamo e la supina accettazione dell’epocale occorrenza antropologica che l’autore intende come smoralizzazione del mondo. E di nuovo al testo, affinché l’analisi di questo fenomeno possa prendere corpo storico e rilevanza teorica. In effetti, è proprio in virtù di un tale movimento che questa esortazione non rimane astratta: essa resta consapevole di doversi chiarire di volta in volta a sé stessa, attraverso il riferimento a quella ossatura culturale che dà concretezza a ciò che essa esorta a tutelare. In altre parole, essa resta consapevole che soltanto mediante il recupero di una certa tensione interna alla cultura occidentale – di una certa narrazione storica dello spirito, per così dire, intravista ma mai dogmaticamente imposta al lettore – può venire alla luce un’idea di uomo concreta, descrittiva e insieme piena di sentimento di sé, tale che ci si senta proprio in dovere di difenderla (cioè, di difendersi) a fronte dei rischi dell’epoca presente. Rischi che risultano strutturalmente inscritti nelle nuove e comunque rilevanti possibilità di gestione di sé che questa epoca offre, e che dunque non possono essere semplicemente rifiutati in blocco (pena, ancora una volta, l’astrazione).
Questo sembra un primo punto preliminare alle analisi svolte da Mazzarella: se al centro del testo sta una pratica di resistenza, nondimeno deve trattarsi di una pratica dialetticamente animata. Non è questione, insomma, di opporre un unilaterale conservatorismo rispetto a un’eventuale minaccia dei tempi: la presa di posizione di cui si diceva può essere etica e filosofica (etica in quanto filosofica o concretamente filosofica in quanto anche etica) proprio in quanto disposta criticamente rispetto ai plessi concettuali cristallizzati nella tradizione. Ovvero: proprio nella misura in cui può discernere quanto del tradizionale rapporto dell’uomo con ciò che lo trascende vada oggi salvato dalla sovversione moderna della “famiglia divina” nella “famiglia terrena” – sovversione ormai istituzionalizzatasi in una pretesa di espansione indefinita; e dunque anche cosa, delle tradizionali disposizioni umane entro questo rapporto, possa essere lasciato indietro. L’autore è molto chiaro, a questo proposito: di fronte all’odierno franare in avanti del dominio della tecnica rispetto allo spazio della vita umana, il tentativo di opporre a tale rovinio una forza frenante contiene probabilmente l’unica effettiva possibilità di contromovimento che ci rimane. Contromovimento funzionale, non cieco come la tendenza alla quale si oppone: funzionale al dovere di restare nello spazio anzitutto valoriale dell’uomo, di ritardare quanto più possibile il suo collasso nell’infinita processualità della natura.
Un tale tentativo frenante è riconosciuto come disperato entro l’assolutezza di questa processualità, e insieme, proprio perciò, essenziale alla vita umana attuale: è appunto il fatto che non ci si possa mai assicurare definitivamente dal rischio di perdere sé stessi come uomini, e che dunque tale rischio resti sempre aperto come tale, a dare senso alla cura umana di non perdersi, di tenere a sé stessi. La consapevolezza di questa relazione sembra, a sua volta, preliminare all’argomentazione: nondimeno, questa torna ogni volta sulla paradossalità del nesso – in quanto esso è, se non altro, sintomo dell’antinomia implicita nella pretesa umana di un’espansione totalizzante della propria libertà.
Quale antinomia? L’impegno esegetico, si diceva, svolge la storia di come l’uomo occidentale abbia proposto a sé una certa idea di sé: cioè come egli, formandola, si sia formato di fronte a sé stesso. Ma, dal canto suo, il rilievo fenomenologico che lo incardina mostra il carattere intimamente antinomico di questo svolgimento. Laddove le grandi pratiche umane si sono dispiegate proprio per tenere aperto lo spazio dell’uomo (l’unico spazio il cui rischio di chiudersi è saputo da colui che lo occupa), esse sono giunte oggi a un punto tale che il procedere cieco di una tale cura per il mantenimento e l’espansione della propria libertà è in effetti la principale fonte di rischio per questa stessa libertà. Nella sua divisione più ampia, la sterminata varietà di queste pratiche si attesta attorno ai due poli della religione e della tecnica, a seconda del modo in cui, nell’avere cura di sé, l’uomo si rapporta alla contingenza della propria nascita, all’inesauribile trascendenza dello spazio naturale che pure gli ha accordato la vita e la possibilità di avere cura in generale. Ebbene, nel momento in cui la pratica tecnica – quella pratica di adattamento che tenta di approssimarsi alla trascendenza, di eroderla come tale, piuttosto che rimanere nel sentimento e nell’intelligenza dell’appartenenza a essa – giunge a poter effettivamente togliere questa trascendenza, a distruggere e riformulare la stessa condizione del suo inizio, del suo venire alla vita, essa può diventare un esercizio di libertà tanto radicale da sopprimere le stesse condizioni di una libertà vivente in generale. Se questo rovinio della libertà umana verso l’occlusione di sé a sé stessa sia destinale, se e in che misura esso possa essere frenato o ritardato nel suo procedere, è forse la questione teorica centrale dell’indagine: ma appunto ad essa l’autore intende già dare una risposta in actu exercito, cioè con la pratica filosofica di cui consiste questo stesso lavoro.
La questione della legittimità di questa pretesa è sviluppata anch’essa agli estremi del testo: in qualche modo, prima e dopo di esso. Al termine della lettura, la sensazione che la tutela dell’uomo che siamo resti ancora un compito tutto da intraprendere sembra slargare i confini dell’esplicazione filosofica, sfumandoli: appunto per questo, l’aggettivo può qui essere assunto soltanto in senso lato, giacché che cosa sia effettivamente filosofia resta, come si sa, questione aperta. È con opportunità e consapevolezza, allora, che l’autore sceglie di allegare al lavoro un’Appendice conclusiva dedicata appunto a questo antico e sempre nuovo problema – cioè: a questo problema sempre nuovo in quanto antico, originario, se si accoglie l’atmosfera heideggeriana della suddetta Appendice. Soltanto una tematizzazione esplicita di questo punto può infatti rispondere alla domanda implicita nella radicalizzazione dell’impostazione autoriflessiva, reattiva e insieme euristica, constatativa e insieme prescrittiva del discorso: se, e in che modo, lo svolgimento di questa indagine nello specifico, e una certa idea di pratica filosofica in generale, possano costituire effettive pratiche di salvaguardia dell’umanità dell’uomo.
Sembra di poter dire, in generale, che una tale pratica si connoti proprio in quanto riesce di fatto a tenere insieme, nel suo movimento, l’uomo e il suo dover rimanere, ridefinendo sempre di nuovo il primo termine attraverso ciò che ricava dall’esplicazione effettiva del secondo, e sostanziando il secondo attraverso il riferimento all’uomo che ogni volta di fatto siamo. Perciò – ne conclude Mazzarella – filosofia è quella tecnica umana caratterizzata dal suo essere direttamente in vista dell’uomo: è la vita che fronteggia sé stessa, la vita che sapendosi deve tenersi a sé, in quel rischio che si apre col dispiegarsi umano del mondo e del logos che lo intesse. È significativo che ad una tale conclusione si rimandi fin dall’Introduzione: come se la presa di posizione che in questa si annuncia, non volendo appesantire con premesse metateoriche il suo stesso slancio verso i temi etici più vari, voglia comunque lasciar intravedere la sua dialettica interna – esponendosi in certo modo nella luce che posiziona e giustifica la sua istanza teorica entro il dibattito odierno.
Il volume si compone di sette saggi, accompagnati dalla già segnalata Appendice conclusiva e dall’Introduzione, intitolata appunto a Una pratica di resistenza. I suddetti scritti sono divisi in quattro aree tematiche: in ordine, La smoralizzazione del mondo, Diritti umani e diritti naturali, L’uomo che deve rimanere, Saggi per l’identità umana come programma stazionario metafisico. Il primo titolo comprende un solo ampio saggio, La smoralizzazione del mondo. La comunità contrattata, che esplicando la strutturale antinomia di cui si diceva apre la via, in qualche modo, ai nuclei problematici affrontati di seguito. Il secondo titolo raggruppa due saggi dedicati alla questione del diritto naturale: in essi trova posto un confronto attento e originale con la tradizionale figura dell’Antigone sofoclea, e con il dissidio ideale che essa incarna. Il terzo titolo include due saggi dedicati, in sostanza, al rapporto tra antropizzazione, religione e tecnica. Infine, il quarto titolo propone due scritti di antropologia filosofica – il secondo dei quali consiste in un confronto estremamente suggestivo con la già richiamata opera di Philip Dick.
In sintesi: nella originale specificità della sua proposta teorica ed etica, questo lavoro resta altresì un prezioso crocevia di alcune linee di ricerca perseguite con costanza dall’autore nell’arco di quasi quarant’anni. Oltre all’ovvio richiamo a Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico (Genova 2004), nel quale questa proposta è stata inaugurata, L’uomo che deve rimanere continua il lavoro sull’opera di Heidegger e Nietzsche (Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Napoli 1981; Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Napoli 1983; Ermeneutica dell'effettività. Prospettive ontiche dell'ontologia heideggeriana, Napoli 1993), la riflessione su temi di bioetica e diritto (Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Napoli 1998) e sul rapporto tra filosofia e religione (Filosofia e teologia di fronte a Cristo, Napoli, 1996; Pensare e credere. Tre scritti cristiani, Brescia 1999). Questo elenco, per quanto indicativo e parziale, rischia nondimeno di offuscare l’afflato del testo – che qui si è provato, per accenni, a trasmettere: quello, come si diceva all’inizio, di una pratica tenace, paziente e consapevole della propria collocazione etica entro lo spazio comune della vita umana presente.