Recensioni / Michaux. Il narratore Altrove

Ci si imbarca in Portogallo per arrivare «Altròve». Henri Michaux, almeno, era partito di là. Salpò alla fine del 1934, con 1'assoluta certezza di approdare in Gran Garabagna. Lo scrisse a un amico ‑ e cioè a Jean Paulhan, il direttore della Nourelle Revue Francoise, che da una decina d'anni pubblicava le sue poesie ‑, in una lettera spedita quell'anno alla vigilia di Natale. Gli annunciava l'intenzione di partire per descrivere «Usanze e costumi delle tribù e popoli» del reame inaudito e remoto. Come previsto, ne avvistò a breve le rive, vi sbarcò deciso a soggiornarvi un paio d’anni. Tanta infallibile sicumera ‑ bisogna sápere -  gli veniva da una lunga, ventennale, esperienza di viaggiatore navigato. Navigava dall'età di vent'anni e, ai trentasette che contava all'epoca della traversata garabannica, aveva visto tanto di mondo da sapere che «Dei posti non si diffida mai abbastanza», come scrisse sulla prima pagina del suo diario di viaggio. E che in tutti i Paesi negli ignoti, stranieri e strani, come nei conosciuti e familiari, «si deve usare prudenza».
Prudente e diffidente, Michaux cominciò con l'essere nel detestato Belgio delle origini: nella piccola Namur dove nacque (il 24 maggio 1899) e nella grande:Bruxelles dove studiò (alla scuola superiore dei gesuiti). Smise presto di sentirvisi a casa, e ne fuggì su di una nave mercantile francese per sventare una crisi vocazionale (meditava infatti di farsi prete) e per scampare alla professione medica che il padre avvocato lo incoraggiava a intraprendere. Le sue mete erano altre: Nord America e Sud America, prima. Poi da Parigi, il Nord e il Sud dell'Africa: il Congo, il Ciad, l'Ecuador. L'Oriente, di Cina, Giappone e India, d'Indonesia e Malesia. Il mezzogiorno europeo: Francia meridionale, Italia, I Spagna, Portogallo...
Quattro continenti nell'arco di un quindicennio ‑ visitati nei panni mutevoli di marinaio, giornalista, editore, autore randagio, poeta nomade, pittore apolide ‑ e il suo destino era ancora un altro. Che fosse «altrove» non doveva tardare a scoprire: all'erta e guardingo com'era, pronto a diffidare dei posti dove approdava senza sostare. Altrove, di fatto, ci era da sempre, tanto valeva trasferircisi con intenzione: levare l'àncora dalle coste lusitane per fare rotta sulla Garabagna e, di là, puntare dritto al «paese della Magia» per proseguire fino a «Qui Poddema». Sono i tre vertici ‑ toccati rispettivamente nel '36, '41 e i '46 ‑ che disegnano la mappa di quell'Ailleurs pubblicato per la prima volta nel 1948, sontuosamente ristampato da Gallimard nel '67 e ora autorevolmente tradotto in italiano da un autore come Gianni Celati, a quattro mani con Jean Talon (Henri Michaux, Altrove, Quodlibet, pagg. 256, euro 16).
Ovvio dunque, fatale e «naturale» che ci arrivasse. E nessun incantesimo, prodigio o folle volo trasformarono il viaggiatore africano (e narratore di Ecuador, del 1929) o il Barbaro in Asia (scritto nel '33) nel visionario osservatore delle popolazioni di paesaggi fantasiosi. Meno ovvio che ci si sentisse a casa. «Questi Paesi non sono sempre stati di suo gusto ‑ racconta l'autore dopo il ritorno ‑. A momenti, stava quasi per familiarizzarsi. Non proprio». La raccomandata diffidenza aveva insomma la meglio.
Non diffidi però di lui il lettore: «Alcuni hanno trovato questi Paesi un poco strani ‑ osserva un po' piccato Michaux ‑. Ma non sarà sempre così. È un'impressieon che sta già passando». Passa via via che si legge della tribù degli Emangloni «dagli sguardi che assorbono il giorno e la notte», dei «viscidi e spettacolari Orbusi», dei Mastadar «che combattono l'orso col randello». O dei lenti, indolentissimi Rocodi, «sempre al di sotto delle loro possibilità» che dimorano agli antipodi degli Hiviniziki zelanti, nervosi «sempre in anticipo su se stessi». Nati stanchi o iperattivi, torpidi o entusiasti, malinconici e voluttuosi, schivi, scostanti e burberi, ubriachi di religione, ossessionati dalla rettitudine, rinomati «per scemenza stagna e satolla»: sono tutti figurini che guizzano per il tempo di un incontro. Si agitano sulla pagina nello spazio di un paragrafo, due capoversi, poche righe: quel tanto che basta a dissipare l'impressione di «stranezza, ‑ a convincerci della loro somiglianza con i nostri umori, malumori e capricci. Personaggi «perfettamente naturali ‑ li sa il loro creatore ‑. Ben presto li ritroveremo ovunque». Che appaiono irritanti, piuttosto che favolosi, eroi da comica, caricatura e gag piuttosto che da fiaba: ritratti sulla punta del­la penna ‑ che Michaux affilava anche per disegnare ‑ con lo stile dell'umorismo crudele e la tecnica della «fissazione umorale». Tanto più spiazzanti quanto meglio riconoscibili. Perfino il bestiario fantastico che popola il loro mondo evoca una fauna fin troppo addomesticata (e umana, troppo umana), se l'uglabo ispido e mal spazzolato è appena un po' più brutto dello gnù, e la ranea, «bestia da soma oppressa da stanchezza plurisecolare» assomiglia per fattezze e indole al più pigro dei somari.
Ma bestiali, ferini, per lo più insettiformi: sono sopratutto i nostri simili, tutti qualità senza uomini: segugi, roditori, letargici come i Maghi o cordialmente cannibali, come i Poddemani che, all'occorrenza, si mimetizzano appesi a un albero e disseccati come ninnoli. Tante metamorfosi di un'umanità entomologica ‑ come pure i folgoranti racconti‑aforisma, il realismo incredibile, la quotidiana comicità dell'assurdo ‑ hanno indotto qualcuno a prendere Michaux per il fratello siamese di Kafka. È solo uno dei tentativi maldestri di catturare l'artista proteiforme tra le maglie di categorie già note. Allora tanto vale affratellarlo al Celati che, nell'ultima meravigliosa narrazione etnografica, insegue la Fata Morgana (Feltrinelli) dietro le palpebre degli immaginari Gamuna addormentati.
Ma le parentele letterarie, le filiazioni creative, le affinità elettive (e le amicizie reali, strette in 85 anni di vita) di questo narratore vagabondo sono innumerevoli. Lettore dei mistici cristiani in gioventù, dei mistici orientali in vecchiaia, fu acceso dall'amore per la scrittura incontrando Lautreamont, per la pittura guardando Klee, Ernst e De Chirico. Intimo di Octavio Paz, che lo introdusse alle opere della letteratura indiana, apprezzato da Jorge Luis Borges, da cui la sua opera letteraria fu introdotta in America Latina, ebbe un promoter di eccezione in André Gide, che negli anni Quaranta gli dedicò svariate conferenze e una celebre monografia. Dopodiché, con la pubblicazione dei suoi scritti nella Bibliotèque de la Pléiade, la fama di sommo autore di lingua francese non tardò ad arrivare. Ma chissà se Gide fece un favore al Michaux che coltivava la fuga e aspirava all'anonimato. Non voleva nemmeno farsi fotografare, e il ritratto scattato nel '45 da Gilberte Brassai e pubblicato nel '59 in copertina di catalogo, costò al fotografo la rottura di un amicizia. Ha ragione Celati, traduttore dell’autore sfuggente (e quanto consapevole: «Colui che voleva fuggirne, traduce anch'egli il Mondo», scriveva Michaux), quando avverte che non «altrove» si deve inseguirlo se non là dove lo portavano le parole: «Anche quando parla di Paesi che ha visitato davvero, lascia andare le frasi dove vogliono loro».

Henri Michaux nacque a Namur, in Belgio, nel 1899. Dopo una infanzia solitaria,  si imbarcò come marinaio per visitare le Americhe. Tornato in Europa, si stabilì a Parigi nel 1928. Segretario di J. Supervielle, entrò in contatto con il gruppo surrealista e diresse la rivista : Hermès interessata ai rapporti tra mistica e poesia. Nel l929 riprese a viaggiare. Dopo il '45 si avvicinò all'esistenzialismo. Si dedicò alla pittura, in cui sperimentò la rappresentazione di spazi psichici. Dal 1955 si dedicò alla sperimentazione degli allucinogeni, in particolare della mescalina. Morì a Parigi nel 1984. Rivelato al pubblico da André Gide, i suoi primi scritti sono del 1921. Chifui (Qui je fus, 1927) mostra precisi influssi surrealisti. In seguito l'acre umore di Michaux si è spesso espresso attraverso la creazione del personaggio di Plume‑Piuma: Un certo Piuma :(Un cerfain Plume, 1930) Piuma (Plume 1937). La successiva produzione è legata ai suoi viággi e segnata dalla guerra, tragica presenza ma sempre filtrata da un’immaginazione onirica. Mentre la sua scrittura, aggressiva e angolosa, è percorsa di crudele umorismo, i versi sono influenzati da Lautréamont, Rimbaud e Kafka.