Homo sacer: uomo sacro, quindi intoccabile perché santo? No, i nove volumi scritti da Giorgio Agamben a partire dal i995 – oggi riuniti in un unico testo – fanno riferimento alla sacertas, alla sanzione, alla maledizione che secondo il diritto romano colpiva chi aveva osato trasgredire i vincoli tradizionali, chi aveva osato violare i legami sociali e religiosi, per esempio tra clientes e patronus. La maledizione si risolveva, con formule simili alla condanna per atimìa in
Grecia, nell’isolamento del reo, che poteva essere punito solo dagli dei,
e certo - rimanendo senza alcuna protezione – presto qualcuno si sa-
rebbe presentato come braccio divino. L’assassinio dell’uomo sacer non sarebbe stato punito, quell’uomo avrebbe ricevuto quanto meritava
per aver trasgredito leggi che preservavano l’equilibrio sociale, per esempio aver usato violenza contro i genitori o spostato dei confini. Sacro quindi maledetto, punibile solo dagli dei, se pur per mano di uomo, oppure punito con la pazzia (forse simulata, per evitare altre sanzioni?).
Homo sacer è il titolo dell’insieme dei nove libri scritti da Agamben,
come parti di un unico testo: la nuova edizione è arricchita da una bibliografia completa e rivista a cura di Diego Ianiro.
Inoltre, l’ordine interno della composizione, che per Agamben è importante e che non coincide con quello cronologico della stesura, viene finalmente stabilito: Il Regno e la Gloria, la cui numerazione finora si sovrapponeva curiosamente a quella di Stasis è situato nello sviluppo dell’opera. «Mentre scrivevo i nove libri – ha dichiarato – sapevo che ciascuno di essi era parte di un’unica ricerca, qualcosa come una tessera nell’archeologia della politica occidentale, di cui alla fine del primo volume avevo intravisto il programma, che si è andato poi precisando man mano
che procedevo nell’indagine» (ringrazio Andrea Cavalletti per avermi
dato le parole esatte di Giorgio Agamben). In vent’anni di studi guidati da un’idea di Walter Benjamin, svolti in un confronto serrato con la teoria biopolitica di Michel Foucault e con la concezione della sovranità di Carl Schmitt, ma anche con gli studi di Kerényi sulla religione antica o con I due corpi del Re di Ernst Kantorowicz, Agamben ha riconosciuto la «nuda vita» (l’epressione è di Benjamin) nelle figure dell’homo sacer, del Flamen Diale o del Musulmano di Auschwitz. Sono figure della vita che può essere uccisa ma non sacrificata, che il potere sovrano, con un gesto
ogni volta iniziale, isola e detiene, confondendo zoé e bios, corpo biologico e corpo politico, esistenza privata ed esistenza pubblica. Nel 1995, il primo volume di Homo sacer proponeva tre tesi provvisorie, che poi l’intera opera non ha fatto che riprendere, sviluppare e articolare: la relazione originaria è il bando, quale «esclusione inclusiva» che isolando
e respingendo cattura; la prestazione fondamentale della sovranità è la produzione della nuda vita; non la città ma il campo è il paradigma dell’odierna politica occidentale. Al tempo stesso, Agamben ha cercato di
pensare, definendola come forma di vita, un’esistenza irriducibile alla violenza del gesto sovrano. Agamben si è chiesto perché il potere avesse sempre bisogno di un momento glorioso; ha ripreso perciò gli studi sulle acclamazioni di Alfòldi, di Kantorowicz e di Peterson, pensando anche ai media attuali come dispositivi della gloria. La tesi è che questo momento corrisponda alla strategia con cui il potere isola, sottrae e detiene la sfera della genuina inoperosità umana, quella dell’otium e della contemplazione, restituendo in cambio la liturgia, si intenda con questo termine quella gloriosa o quella dei ministri, ovvero l’officium, come modello di una vita risolta nella prassi.
La forma di vita può essere ripensata a partire dalla regola dei frati minori, cioè da una vita che non è definita dall’officium, ma unicamente dalla
povertà o dall’uso.
Le tróne n’est qu’un fauteuil vide, il trono è solo una poltrona vuota, si
potrebbe chiosare, rovesciando Guizot. Solo se espone questo vuoto, la filosofia sottrae alla macchina del governo la sua preda. Il senso attivo
di désoeuvrer (o désouvrer) corrisponde a un vero e proprio atto di sabotaggio, di disattivazione del dispositivo. «Inoperosità» è stato tradotto in francese con désouvrement, Agamben ha conferito però a questa parola un senso diverso da quello che risuona in Bataille, in Blanchot e in Nancy. Distinguendosi dal primo come dai suoi epigoni, reinterpretando in maniera originale la lezione di Heidegger, Agamben ha potuto trovare la potenza nell’atto stesso, per riprendere e salvare ciò che Aristotele aveva lasciato cadere, l’idea dell’uomo come essere che è essenzialmente argos. E ha potuto farlo, però, intendendo la parola inoperosità come traduzione letterale del greco katargesis, il termine chiave del messianismo paolino. «Katargeo – leggiamo nel Tempo che resta (2000) – è un composto di argos, non in opera (a-ergos), inattivo». Il riferimento al passato, a Aristotele e san Paolo,
non è erudizione: per Agamben una ricerca filosofica che non abbia la forma di un’archeologia rischia di scadere nella chiacchiera. L’archeologia è in questo senso l’unica via di accesso al presente, tutto Homo sacer non è che uno sconfinato progetto per il passato dell’Occidente: una
profezia rivolta al passato, che credo potrà essere compresa solo in un futuro nemmeno tanto prossimo.