Recensioni / Lo snapchat di Euridice a Orfeo

Euridice manda a Orfeo uno snapchat. Lui non resiste alla tentazione di guardarlo, e perde per sempre l'immagine della sua amata, nel momento stesso in cui pensava di riaverla per sempre con sé.
La meraviglia del mito. Che sa interpretare quel che non poteva prevedere. Da una ventina di secoli quell'attimo fatale in cui l'inconsolabile eroe, avuto il permesso speciale di scendere negli inferi per andare a riprendersi il perduto amore, non potendo resistere viola i patti, si volge a guardarla prima del tempo e la vede svanire; da venti secoli quell'attimo in cui tutto è ritrovato e tutto è perso angoscia il rimpianto di tutti gli amanti infelici dell'umanità.
Ammonisce che ciò che è perduto lo è per sempre, e che la memoria ci inganna nel modo più atroce: perché nel momento stesso in cui sembra restituirci ciò che abbiamo smarrito, ci sbatte il faccia la dura realtà della sua perdita.
Bene, il mito di Orfeo ha atteso una ventina di secoli per incarnare la sua forma simbolica in una pratica reale. Quel «rivelarsi nella sparizione» oggi «è esercitato di default dalla cosiddetta messaggistica istantanea», così ci suggerisce Fabio Coccetti quasi alla fine di un suo recentissimo libro, Il frammento e la parvenza, sulle immagini e l'oblio.
Sì, Snapchat è decisamente una versione del mito di Orfeo - assieme forse a tutte le altre modalità di comunicazione online per immagini che prevedono l'impermanenza fatale, l'evanescenza programmata (le storie di Instagram, ad esempio, che scompaiono dopo poche ore).
Ma no, direte voi. Non calza. Perché chi manda uno snapchat sa che svanirà, dunque lo fa apposta: mentre Euridice, anche lei rimane vittima della rottura dell'incantesimo, anche lei perde dolorosamente il suo amato tornando nell'Ade.
Eh no. Il nostro saggista proprio di questo ci vuole convincere: che il passato può non volere tornare, può rifiutarsi di essere ripresentato, può fingere soltanto di riapparire. Euridice, ci spiega, in realtà si beffa di Orfeo: non è mai tornata veramente con lui, quella che lo segue di qualche passo uscendo dall'aldilà è solo una parvenza. Euridice è dunque l'oblio, la soglia che non separa il vivo dal morto, ma «ciò che è disponibile da ciò che non lo è più». «Ciò che è passato davvero al di là delle soglia non può essere richiamato, né può essere gestito dalla memoria».
Dal passato non tornano presenze, ma parvenze, è la tesi di questo originale trattato su, o contro, la memoria. Che non poteva far altro che finire (ma ho dovuto attendere le ultimissime pagine, ormai convinto che se ne fosse incredibilmente dimenticato) per occuparsi della fotografia, per eccellenza la macchina della memoria per immagini, nonché il presunto formidabile antidoto alla dimenticanza.
La fotografia dunque «si candida così a prendere il posto della parvenza, del fantasma». Euridice «non può rispondere al richiamo della presentificazione», ma può concedersi all'illusione della rappresentazione. Può farsi una foto e mandarla a Orfeo. Ma «fino a che punto ciò che è passato acconsente ad essere ripresentato?» Bene, credo che questo sia il dubbio amletico che mina le fondamenta della fotografia come oggetto antropologico, fin dalle sue origini. Fin da quando fu inventata come «specchio dotato di memoria», appunto. Ecco, l'intuizione di questo libro è eccellente, ma stupisce che il suo autore l'abbia circoscritta solo alla fotografia digitale. Forse suggestionato da una pubblicistica molto più superficiale, dalla polemica essenzialista, ormai fortunatamente smorzata sulla «smaterializzazione» della fotografia all'epoca della sua traduzione in codici numerici, Coccetti cade nella trappola della opposizione fra granulini (d'argento) e numerini, come opposizione fra un'epoca analogica dell'impronta materiale e la nostra digitale dello «sradicamento» immateriale.
Peccato. Perché la porta che questa interpretazione del mito di Orfeo ci spalanca davanti in modo emozionante ci aiuta invece ad avvicinarci al cuore concettuale del fotografico, che non è cambiato con il puro e semplice mutamento dei supporti di registrazione.
Quel cuore è la splendida ambiguità della fotografia tra la sua promessa di restituzione del reale e il suo funzionamento fantasmatico. Come la magia, la fotografia cerca di confondere contatto e somiglianza, cerca di affermare il potere transitivo della vista sull'oggetto attraverso una sua rappresentazione che rispetti certi criteri (la presenza reale dell'oggetto davanti all'obiettivo, l'impronta che l'oggetto lascia sulla superficie sensibile) che la pittura, pur proponendosi anticamente di farlo, non riuscì a soddisfare.
In realtà, quando dice fotografia digitale, Coccetti sembra alludere a qualcosa di ancora più ristretto e recente: il selfie. Si lascia sedurre da una novità che gli sembra rilevantissima: l'apparizione della seconda fotocamera, quella frontale, sui fotofonini.
Giustamente interpreta questa svolta come la fine di una separazione fondamentale nella storia del fotografico: quella fra chi guarda e chi è guardato, chi fotografa e chi è fotografato. Che è sicuramente la novità dirompente del selfie, quella che lo distingue dall'autoritratto e anche dall'autoscatto.
Ma il ragionamento va oltre: come Giano bifronte (un altro dei miti indagati con intelligenza nel libro), con la seconda fotocamera spariscono «i punti ciechi», e il potere di materializzare lo sguardo si apre al «sogno realizzato di una completa permeabilità, di un interscambio totale, della dissoluzione stessa dell'alterità. E questo non è così vero. Quel sogno di onniveggenza, quell'ambizione panottica, la fotografia in realtà li insegue fin dalla nascita, e in qualche modo li ha raggiunti ben prima di poterlo fare con un singolo apparecchio: è l'onnipresenza delle fotocamere (su cui la satira infieriva già alla fine dell'Ottocento) a garantire la fine di qualsiasi «punto cieco», a rendere tutto quanto il pianeta fotografabile, e tendenzialmente fotografato.
Chiamare in causa per questo solo la fotografia digitale, anzi la sua versione selfistica, significa limitare la portata di una intuizione illuminante.
Ovvero, che l'apparizione della fotografia tout-court nella storia umana, momento di svolta della civiltà come e forse più dell'invenzione della stampa, non ha mantenuto la promessa fatta a noi, nuovi Orfei: di liberarci dall'angoscia della separazione. La distanza fra i due amanti, l'uomo e la memoria delle cose perdute, non è stata colmata. E il mito ci ammonisce sulla necessità di accettare quella separazione.
Ma certo, le fotografie impermanenti, le foto che svaniscono programmaticamente, sembrano ora volerci dire la stessa cosa. Il loro sbarluccicare sul display per poi sparire sembra essere pensato per darci, della fotografia, «quanto basta per provocare innocentemente lo sguardo retrospettivo» e poi negarcelo spietatamente.
Snapchat e le storie di Instagram sono stati una scoperta dei ragazzini, che li hanno di fatto reinventati a modo loro. Mi sorprende, questa loro passione per una immagine che scompare non appena ha dato l'impressione fallace che il passato possa essere richiamato. Forse gli adolescenti non sono ancora vittime dell'angoscia della perdita? Non sono ancora dopati dalla droga del ricordo, dall'ansiolitico della memoria?
O sono, semplicemente, più spontanei, innocenti e intuitivi di noi?