Recensioni / «La bellezza di qualcosa che sta per scomparire, ma a cui si crede ciecamente»: per Arnaldo Colasanti l’esercizio critico mette in gioco tutto (sul libro dedicato a Magrelli)

Dopo il silenzio con cui è stato accolto quello precedente sulla poesia di Damiani (La vita comune, Melville 2018), credo che se un libro di critica fondamentale come quello di Arnaldo Colasanti su Valerio Magrelli, Polittico del Sangue amaro, Quodlibet, analisi di una sezione del libro Il sangue amaro, passi di nuovo inosservato sia dovuto alla sua inattualità. Infatti bisogna partire da una certezza: per Colasanti conoscenza e vita sono inseparabili, perché la vera vita è quella della mente, di un pensiero in continuo movimento, il che non vuol dire che si muova in uno spazio irenico, ma, al contrario, diventi il luogo dove tutte le accidentalità della vita, l’amara o dolce contingenza che ci modella, conoscenza e vita sono il dato inevitabile originario da cui le parole nascono e a cui ritornano per dargli un senso.
C’è qualcosa di antico nella critica di Colasanti, e non certo per i rimandi culturali: è il senso di trovarsi alla fine di un’epoca, di dover costruire una summa che ha il nitore e la bellezza di qualcosa che sta per scomparire, ma a cui si crede ancora ciecamente, la sua critica potrebbe essere quello di un Porfirio dei nostri tempi: tenere unito il mondo con un sapere commovente, leggere nell’antro delle ninfe un tesoro formato dalle possibilità di comprendere il mondo con tutta la conoscenza possibile, perché quel luogo non esiste, ma va costruito pur nella sua inevitabile precarietà.
Per questo in tutti i suoi libri, quello di Colasanti non è un pensiero definito che precede e cerca conferme nei testi, ma un lavoro che ogni volta ricomincia da capo, muovendosi sulle tracce che ogni autore lascia. Coinvolgere la propria vita nell’esercizio critico è per Colasanti mettere in campo e in gioco tutto ciò che può pensare, mettere in moto una memoria che si collega al presente, e così aprire varchi nel tempo, dare una speranza al futuro. La sua è una erudizione alle volte accanita e disorientante che vuole spiegare perché la poesia è “sincera”, penetrando nelle pieghe dei versi, nel sommo artificio di una lingua che si spoglia e si mostra nella sua povertà di fronte al mondo, così come il pensiero che l’ha assediata si placa nella realizzazione di un mosaico che non potrà essere ripetuto.
Se la vita ha un mistero, una sacralità in ciò che non può essere detto, è solo perché l’indicibile è una conquista, la cima raggiunta di un pensiero, non un dono iniziatico, una gnosi indimostrabile, insomma un dilettantismo. E l’indicibile non è l’assoluto, ma la verità: una verità che si declina nei tempi, nelle vite di ognuno e non rimane mai simile a se stessa come il pensiero conduce ed è condotto dai versi.
Da qualche parte Gilson affermava che per raggiungere la verità nella nostra esistenza la vita dovrebbe essere qualcosa di diverso da un debutto: credo che l’opera di Colasanti sia ogni volta lo stupore e l’inevitabile delusione di questo debutto: sia il sogno della vita: le meravigliose corse nel corridoio di Nataša in Guerra e pace.
Non ho parlato del libro in questione: vi si troverà un Valerio Magrelli assai diverso dalla vulgata: Bastino le parole iniziali: «Tutto il male del mondo non è il disordine delle cose, ma il contrario: è l’opprimente ordine che le cose assumono e attraverso cui le cose si dispiegano e sono viste, diventano uno sguardo. La grande devastazione dell’opera di Valerio Magrelli è questo ordine in cui la vita viene definita. Cosa mai possa essere il disordine non è possibile dirlo. Il disordine esprime sempre la vita, eppure, tutto questo, non sa mai come dirlo».