Recensioni / Quando lo spartito del mondo è collettivo

Ad aprire questa nota di lettura dovrebbe forse essere uno spartito, in una sorta di omaggio alla sapiente costruzione interdisciplinare del libro che è al centro di queste righe: Grande Musica Nera di Paul Steinbeck, tradotto da Giuseppe Lucchesini, curato da Claudio Sessa e pubblicato da Quodlibet nella collana Chorus. Il libro di Steinbeck, infatti, è punteggiato di spartiti, sempre analizzati con perizia e minuzia di dettagli, e dà occasione al lettore che sia anche esperto di musica di approfondire in modo più diretto e immediato la conoscenza della produzione dell’Art Ensemble of Chicago, senza, per questo, risultare indigesto a un pubblico che non sia altrettanto avveduto.
Steinbeck, infatti, profonde la sua conoscenza in quasi 400 pagine di grande formato, nell’edizione italiana, ma non si dilunga mai nell’approfondimento teorico o specialistico. La prospettiva adottata, invece, è prevalentemente di tipo storico, con un costante scandaglio biografico rispetto ai singoli musicisti: Malachi Favors, Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Lester Bowie e Don Moye, soprattutto, ma senza dimenticare tutti gli altri musicisti che hanno incrociato i loro percorsi e i loro strumenti con quelli dell’Art Ensemble of Chicago. Pur non potendo essere, di fatto, onnicomprensivo, tale approccio consente anche di restituire un’esaustiva visione d’insieme. Di fondamentale importanza, ad esempio, è il primo capitolo, nel quale Steinbeck dimostra brillantemente come il South Side di Chicago possa essere considerato uno dei luoghi di nascita del jazz afroamericano, senza nulla togliere alla scena, tradizionalmente più nota e celebrata, di New Orleans.
Nei capitoli seguenti, si delinea invece la storia vera e propria dell’Art Ensemble of Chicago, descritta con rigore analitico e al tempo stesso con una notevole chiarezza discorsiva fin dai suoi primi passi. Ne emergono così tutti gli aspetti fondamentali, anche a livello critico: dall’elaborazione di un percorso nel free jazz e nel post-free che non pone eccessive difficoltà, anzi può sedurre anche il fruitore non avvezzo, alla caratura politica, ma non ideologica, delle varie performance e opere, fino a quella dimensione cooperativa che è valsa ai componenti del gruppo l’autonomia materiale e ha contribuito a consolidare i valori politici espressi nella loro musica. Da questa serie di elementi si può facilmente ricostruire anche il contesto musicale che con l’Art Ensemble of Chicago è entrato in contatto (come nel caso di Anthony Braxton, alfiere della seconda generazione del free) o in collisione (come nel caso delle polemiche tra Lester Bowie e Wynton Marsalis, trombettista più giovane di Bowie e portatore di una certa, anche se mai completa, “restaurazione” dal punto di vista musicale).
Com’è stato già accennato, tre capitoli sono dedicati all’analisi dettagliata di due album e una videoregistrazione che hanno segnato la storia del gruppo: A Jackson in Your House (1969), Live at Mandel Hall (1972) e Live from the Jazz Showcase (1982). Se la scelta può sembrare limitata rispetto ad una storia musicale che ha coperto anche le ultime decadi – l’Art Ensemble of Chicago ha da pochissimo calcato le scene del Blue Note di Milano, il primo novembre scorso – si tratta, in ogni caso, di opere di fondamentale importanza: la prima, allo scopo di sottolineare adeguatamente come l’Art Ensemble of Chicago si sia definitivamente imposto sulla scena del jazz durante gli anni parigini; le altre due, per rimarcare come sia nella dimensione live della performance che si possono dispiegare al meglio le individualità creative dei componenti del gruppo. Questo, senza dimenticare, per contro, che le improvvisazioni dell’Art Ensemble of Chicago, come quelle di moltissime altre formazioni jazz, sono sempre basate su un lavoro preparatorio preciso e costante, fatto sul quale Steinbeck insiste esplicitamente più volte e che dimostra anche in modo concreto, come si è detto, con l’analisi degli spartiti inclusi nel saggio.
A tal proposito, quella che si va delineando nel libro di Steinbeck è la storia di un disciplinamento interno, sempre placidamente condiviso e operante a vari livelli, da quello più strettamente musicale a quello dell’amministrazione economica. Ogni performance dell’Art Ensemble of Chicago, infatti, è preceduta da un lavoro più o meno lungo di preparazione, senza che questo si traduca direttamente in un “lavoro a tavolino”, andando così a discapito del lato creativo più direttamente legato alle forme dell’improvvisazione musicale e scenica. Dal punto di vista economico, invece, è stata l’adesione dei vari musicisti a una sorta di cooperativa a garantire la sopravvivenza dell’Art Ensemble fino ad oggi, ovviando ai “rischi d’impresa” che sempre costellano le carriere dei musicisti, ma consentendo anche una costante espansione del pubblico di riferimento, oggi diffuso su scala internazionale. Lungi dal vincolare i singoli musicisti e il gruppo a principi troppo rigidi, è stata questa comunione d’intenti a catalizzare e, in ultima istanza, a favorire la loro libertà nell’esplorazione intermediale, che combina musica, poesia, teatro, danza e tutte quelle pratiche performative che si collocano all’intersezione tra le singole arti.
L’Art Ensemble of Chicago, del resto, non suona soltanto quella Great Black Music (Grande Musica Nera) che, secondo la celebre auto-definizione adottata dai membri del gruppo, dà il titolo al saggio di Steinbeck. Quel che l’Art Ensemble mette in scena è, più propriamente, Lo spartito del mondo, per rubare il titolo ad un recente e importante saggio del musicologo Giovanni Bietti: grazie alla profondità avanguardistica delle proprie esplorazioni, tanto individuali quanto collettive, anche l’Art Ensemble of Chicago si sottrae all’esotismo e all’auto-esotismo che si sono recentemente voluti individuare nella storia della musica mondiale a partire dal pur fondamentale saggio di Edward W. Said, Orientalismo (1978); quel che l’Art Ensemble of Chicago sembra offrire ogni volta al fruitore (che non potrà, a questo punto, mancare di riferirsi all’importante lavoro di Steinbeck) è una nuova via agli “aspetti non-cognitivi”, per usare un’espressione di Jarman e poi dell’Art Ensemble, di quell’esperienza insieme normativa e di emancipazione dalla norma che è la musica.

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