Recensioni / In ascolto della storia con la musica dell'Aeoc

Lo scorso 25 ottobre Roscoe Mitchell è stato ospite di uno degli appuntamenti dell’Associazione Scarlatti al teatro Sannazzaro di Napoli. Un concerto dedicato alla composizione istantanea, merce meno rara che un tempo eppure di difficilissima fattura se fondata sull’estemporaneità del gesto più che sull’autodisciplina dell’ascolto reciproco. Il sassofonista chicagoano, storico membro dell’Art Ensemble of Chicago, era accompagnato dal flautista Gianni Trovalusci e dal percussionista Michele Rabbia in un concerto in grado di destabilizzare i facinorosi della musica colta, così impreparati ad accogliere suoni rimasti profondamente inauditi. In seguito è toccato all’Art Ensemble of Chicago, oramai di fatto il gruppo di Mitchell, ad andare in scena in Italia, prima il 27 ottobre a Cormons in occasione di Jazz&Wine of Peace e il primo novembre a Milano nell’ambito della rassegna JazzMi.
Concerti che hanno continuato la scrittura di una storia lunga oltre mezzo secolo di questo sciamano devoto all’arte dei suoni istantanei e dei suoi storici partner. Un’occasione per ripercorrerla è offerta da Grande Musica Nera. Storia dell’Art Ensemble of Chicago, testo che principia la collana Chorus in casa Quodlibet. Ne è autore Paul Steinbeck, professore di musica alla Washington University di St. Louis, e offre un racconto organico della storia di questo insieme di musicisti neri che ha rivoluzionato le pratiche del fare musica, accompagnandolo a una rigorosa analisi musicologica molto utile nell’avvicinare qualsiasi lettore all’articolazione della sintassi improvvisativa dell’Art Ensemble of Chicago (d’ora in avanti AEOC).
Una lettura agile, pensata essa stessa musicalmente, con l’alternanza di capitoli vivaci (quelli relativi alla storia senza interruzioni dell’AEOC) e capitoli più lenti (quelli più propriamente musicologici) a tramare una mappatura testuale opportunamente posta in dialogo con le voci degli stessi protagonisti dell’AEOC grazie al ricorrere di numerosissime citazioni. Al lettore il compito di leggere tra le righe per individuare i nessi politico-poetici ancora operanti nelle traiettorie di un gruppo che ha fatto dell’identità nera la chiave di volta per figurare sul palcoscenico della musica mondiale: come una goccia destinata a far traboccare il vaso, l’urgenza collettivista dei musicisti è andata oltre le condizioni socio-culturali della Chicago degli anni Sessanta per consegnare alla storia un’esperienza ancora oggi in corso.
Stabilito un contatto iniziale con la cultura italiana nella prefazione di Claudio Sessa (co-curatore della collana insieme a Fabio Ferretti) secondo cui «è ragionevole pensare che, dopo la Francia, l’Italia sia stata il Paese più ospitale d’Europa per l’Art Ensemble: molti appassionati ne furono conquistati fin dal primo incontro, quando suonarono al Festival di Bergamo davanti a molte centinaia di ascoltatori al Teatro Donizetti», nell’introduzione Steinbeck svela il piano dell’opera, «la prima storia dell’Art Ensemble e il primo studio approfondito della loro musica». Si inizia a familiarizzare con termini che percorrono carsicamente la struttura del libro quali composizione, improvvisazione e intermedia con particolare riferimento alla spinta biplanare che anima le pratiche tanto musicali quanto sociali dell’AEOC. Il tutto affrontato secondo la prospettiva cronologica quale familiare sintesi di forze storiche.


Dalle chiese di Chicago ai club europei
Animato da un comune e vitale spirito di ricerca, il nucleo dell’AEOC si costituisce a Chicago, capitale dell’America nera ed epicentro del South Side; se negli anni Sessanta il quartiere di Bronzeville ospitava la quotidianità di migliaia di chicagoani neri rapiti dal culto musicale della domenica liturgica, grazie a Trip Advisor veniamo a sapere da turisti in assetto equitazione/passeggiata che questa gemma storica non è stata degnamente conservata (una di loro lamenta addirittura l’etichetta di attrazione turistica assegnata al quartiere). Dopo la premessa crono-geografica, fanno il loro ingresso in scena Malachi Favors, contrabbassista, Joseph Jarman, sassofonista come Roscoe Mitchell, protagonisti dell’AEOC cresciuti all’ombra della vita notturna di Bronzeville tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta. I primi esperimenti al tempo del laboratorio Experimental Band per la direzione di Richard Abrams avevano richiesto uno specifico passo avanti verso la musica originale, con una puntata ulteriore e decisiva verso il porto della creatività con l’Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM).
È l’agosto del 1965 quando lo stato dell’Illinois accetta la richiesta dell’associazione di costituirsi come associazione riconosciuta senza fini di lucro: si reggerà sui contributi dei membri e con le vendite dei biglietti dei concerti, secondo il modello dell’autofinanziamento; in questo modo può restare aperta alla sperimentazione senza farsi coinvolgere da finanziatori pronti a imbrigliarne la vitalità. Parte tutto da qui. Con l’arrivo di Lester Bowie, trombettista, il Roscoe Mitchell Quartet evolve nel Roscoe Mitchell Art Ensemble: siamo tra la fine del 1966 e l’inizio del 1967 e la strada verso l’Art Ensemble sembra già di/segnata, almeno nel nome. Negli stessi mesi Joseph Jarman forma il suo quartetto, dopo la collaborazione con John Cage nella perfomance Imperfections in a Given Space del 1965 presso l’Harper Theater di Chicago. Passano gli anni e Chicago inizia a stare stretta al punto che proprio Lester Bowie propone una via d’uscita europea: Mitchell si manteneva lavorando in fabbrica, mentre lui e Malachi Favors vivevano suonando musica commerciale. Jarman avrebbe perso nel giro di quattordici mesi due membri del suo gruppo e così Bowie, Favors e Mitchell gli offrirono un valido sostegno invitandolo a suonare una volta, un’altra volta ancora e l’altra volta pure. Era arrivato il momento di dedicarsi interamente alla musica e un concerto ogni tanto non bastava.
I contatti con il batterista Claude Delcloo, fondatore e direttore artistico di Actuel, una rivista interessata al jazz e alle arti contemporanee, favorirono la scelta parigina: la città accoglieva da più di cinquant’anni in modo caloroso gli artisti afroamericani offrendosi come terreno ricco di opportunità di lavoro per musicisti disposti a rischiare. Bowie finanzia così la partenza del gruppo liquidando tutti i suoi averi. Si legge in Grande Musica Nera:

[…] eravamo in un gruppo che, lo sapevamo, aveva un suono unico, parlava un linguaggio che era solo nostro; sapevamo di avere qualcosa da dare alla musica e volevamo fare esclusivamente questo. Ed era impossibile farlo negli States.

Il concerto d’addio si tenne il 24 maggio 1969 al Blue Gargoyle, vicino all’università di Chicago nell’esordio ufficiale di Jarman come membro ufficiale del gruppo. La nostra cronistoria non ufficiale si ferma qui, non prima di aver rintracciato in Don Moye, percussionista, l’ultimo elemento che compone la rosa dell’AEOC: dopo essersi stabiliti in Francia, avvertirono infatti la necessità di aggiungere un batterista regolare all’organico.

Cosa resterà di queste gesta
Sullo sfondo restano le palpitanti biografie dei protagonisti di questa storia che taglia come un rasoio i nervi scoperti della musica contemporanea. Una esperienza fatta di prove giornaliere continue, di partiture e composizioni musicali mediate da una responsabile creatività estemporanea, di vere e proprie tonnellate di strumenti musicali in giro per il mondo e la loro sapiente disposizione tanto nello spazio del concerto quanto nel tempo del viaggio, di una presenza concertistica non riducibile esclusivamente alla scenografia dei corpi, di pubblici di tutti i continenti riuniti per vedere all’opera un’azione non solo musicale, di etichette che ne hanno consentito una visibilità destinata a durare mentre proprio la registrazione di alcuni live (efficacemente presentati dall’attento Steinbeck in una veste analitica che propone una lettura ulteriore alla solita cronaca) attesta una incredibile capacità nel direzionare l’esecuzione verso la frontiera del ripetibile. Si ascolti Live at Mandel Hall (registrato nel 1972 e pubblicato dalla Delmark), che Steinbeck descrive come:

un evento straordinario […]. I musicisti aprono il concerto con una spettacolare, tonante pulsazione. Suonano tutti assieme un flusso sincronizzato di note gravi, cinque al secondo, un’ammirevole velocità. […] Questa improvvisa onda sonora sbalordisce l’ascoltatore, anche perché i musicisti partono da un livello che sembra il volume massimo e poi lo alzano sempre di più.

Oppure si veda quello al Jazz Showcase, un concerto videoregistrato il 1° novembre 1981 a Chicago che porta in scena, scrive Steinbeck, “tutto il ventaglio degli intermedia visivi utilizzati nei concerti dell’Art Ensemble, un aspetto fondamentale della prassi performativa del gruppo”. Quella dell’AEOC è una storia unica, in grado di mettere altresì in discussione le logiche economiche che sottendono una certa e altra musica facendo riferimento a una forma di co-partecipazione non solo dell’evento musicale, non solo dei mezzi di produzione, ma anche e soprattutto del tempo vissuto insieme, senza imprigionare l’altro nella formula esclusiva dell’AEOC ma lasciandogli lo spazio di costruire una indipendente vita artistica quale forma di ossigenazione post matte e disperate sessioni di musica d’insieme. Se alcuni dei protagonisti di questa storia sono venuti a mancare, altri continuano la missione della musica creativa a ogni costo e in ogni posto come evidente nello stesso concerto di Roscoe Mitchell dello scorso ottobre.
Per chi avesse voglia di sedare non solo il conatus legendi ma anche quello audiendi, non si può non segnalare l’uscita del boxset in ventuno compact disc edito a fine 2018 dall’ECM Records (dal cui voluminoso booklet provengono le immagini sopra), in grado di supportare degnamente una buona parte della storia narrata da Steinbeck nel volume pubblicato originariamente nel 2017 per l’University of Chicago Press con il titolo Message to Our Folks: The Art Ensemble of Chicago (riprendendo il titolo di un loro storico album del 1969). Le due proposte editoriali si completano, perché con Grande musica Nera il pubblico italiano dispone di una corposa guida all’ascolto, anche se il box ECM prende il via dal primo album uscito nel 1979 per l’etichetta: Nice Guys, raccogliendo diciannove album usciti tra il 1978 e il 2015, per un totale di 21 cd. Titolo: The Art Ensemble of Chicago and Associated Ensembles. Il contratto con ECM fu una svolta fondamentale per la carriera dei cinque. Sottolinea Steinbeck:

Tra la fine degli anni Settanta e i primi Novanta la popolarità dell’Art Ensemble conobbe il suo picco. Le incisioni del gruppo per l’Ecm aumentarono le richieste, provenienti dal mondo intero, di concerti dell’Art Ensemble.

Il cofanetto è stato pubblicato in occasione dei cinquant’anni del gruppo e raccoglie gli album prodotti dall’etichetta Manfred Eicher, ovvero, oltre a Nice Guys, Full Force, Urban Bushmen e il live The Third Decade. A questi si aggiungono i lavori realizzati per ECM da Bowie e da Mitchell, sia quelli a proprio nome che quelli che li vedono in veste di ospiti/coprotagonisti. Bowie con il suo Brass Fantasy Group con Wadada Leo Smith e con Jack DeJohnette. Mitchell con la sua Note Factory Band, con il Transatlantic Art Ensemble co-fondato con Evan Parker, e con il suo storico trio registrato al Chicago’s Museum of Contemporary Art. Più in generale, per comprendere la vicenda dell’AEOC, il libro di Steinbeck si rivela uno strumento adeguato per orientarsi nelle diverse traiettorie stimolate dalla loro musica, che in un’intervista rilasciata nel 1969 alla rivista Jazz Hot (citata da Steinbeck) Jarman definì così:

Suoniamo il blues, suoniamo il jazz; musica spagnola e africana; musica classica, musica europea contemporanea, musica voodoo. qualsiasi cosa… perché in definitiva, è “la musica” ciò che suoniamo. Creiamo suoni. Punto.

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