Quando la vivi, o credi di viverla appena udito quel giudizio a tre sillabe «c’è crisi», reca con sé un’aura lugubre d’angoscia, ma indeterminata. Non tanto per l’olezzo di stanze chiuse e infette, quanto per quella scena primaria che tutti abbiamo in mente: la pila di cartoni degli ex-broker che portano via le loro cose dalla sede di Lehman Brothers. Perché oggi la crisi, nell’immaginario mediatico condiviso, è quella scena – disoccupazione, crollo dei vertici che annuncia il cedere delle fondamenta. Poi è la folla di grafici di economia che scendono verso il fondo dell’ascissa cartesiana e lo violano. È sempre nera, sempre la peggiore, la crisi.
Di fronte all’ansia che ci prende di fronte a queste scene ricorrenti nell’inconscio mediatico, può sembrare strano sentirsi dire, e spiegare come fa Dario Gentili in questo libro agile ma colmo di millenni di storie di crisi, come la crisi in realtà sia sempre stata la migliore alleata dell’ordine e che oggi lo è tanto più, nella forma paradossale che viviamo sulla nostra pelle mentre facciamo fatica a sbarcare il lunario. Suona difficile scoprire come ordine e crisi vanno a braccetto. E invece da sempre,appena si dice «c’è crisi», la testa è orientata già verso la soluzione, verso il superamento del conflitto che si è determinato. Perché un corpo ammalato tende da sé alla salute, alla vita.
La crisi è innanzitutto un giudizio, ricorda Gentili. Sono Parmenide, Platone, Aristotele, Galeno a metterlo in chiaro. Nel giudizio forense prima (dove «è la giustizia che fa il tribunale», e non viceversa), nel giudizio medico ancora prima, dove ‘crisi’ è diagnosi di un fenomeno naturale. In greco krisis è un «giudizio che riduce i termini su cui si pronuncia a una alternativa assoluta» e «trova il suo paradigma nel giudizio sulla vita e la morte del paziente vittima di malattia».
Su questa base, nel pensiero ellenico,sostanzialmente chi dice crisi fa un servizio al governo. Nel mondo aristotelico, «la krisis è pronunciata non per stabilire un ordine, bensì per farlo rispettare. Deve cioè presupporre che l’ordine sia già dato» (p. 30). Perché la crisi non è il momento della decisione, ma quello della disposizione giuridicamente intesa – ricorda Gentili riprendendo un efficace libretto di Agamben. Anzi «denota la sua massima efficacia in quanto dispositivo» (22). Il cuore del dispositivo logico della crisi è molto semplice e sta nello sfruttamento della vaghezza. Il giudizio di crisi – perché la crisi è innanzitutto un giudizio, è quell’enunciato che constata («sto in crisi»), quella battuta a denti stretti («c’è crisi») –, quel giudizio «dispone senza porre il proprio significato» (23). La crisi mette in campo gli elementi e compone un discorso i cui soggetti sono «in crisi» e vanno ricondotti all’ordine, che è l’unico significato accettato. Chi non accetta è latore di nuove crisi, e va “secreto”, soppresso.
A spiegare questo strano effetto di secrezione è, con un effetto di rinculo all’antico tanto più significativo nel secolo dei Lumi, la voce «Crisi» di Johann Heinrich Zedler, il curatore del Lessico Universale che fece da controcanto tedesco all’Enciclopedia Francese e che Gentili recupera in un passaggio di grande interesse. Mentre a ovest del Reno scoprivano la critica e le sue potenzialità rivoluzionarie, Zedler, che di mestiere faceva l’editore, porta avanti anche nel moderno l’ennesima identificazione tra la crisi e il paradigma medico. Il suo sguardo corre all’esito del conflitto che vive l’organismo.
Un corpo in crisi può tendere perfettamente a “secernere” dal corpo la malattia, e vincere la lotta. Oppure lo fa imperfettamente, quando l’espulsione del morbo è parziale, monca – e allora sposta il problema verso parti poco nobili. La crisi perfetta è una storia di espulsioni che rimettono in ordine le cose. Figura minore, Zedler ha un peso enorme perché ha una funzione anfibia: è il ponte con l’antico e insieme il passaggio al nostro ultramoderno. È il teorico della crisi come moto di espulsione perfetta del conflitto, proprio mentre altrove le cose avevano preso tutt’altra piega.
È una piccola, sana ossessione di Gentili, che da anni si dedica alle “parti maledette” e ai loro pensieri passati e presenti, quella di salvaguardare e tutelare la traccia del conflitto e dei possibili che si iscrivono proprio nei volti ‘sinistri’ (esclusi, proscritti, espulsi) dell’umanità, come fonte del nuovo. In questo libro spetta a Machiavelli inaugurare un pensiero diverso della crisi come decisione non sulla salute, ma sulla malattia. E poi a Rousseau, in cui diverrà chiaro – tra molte ambiguità, e col mito dell’origine attivato a pieno regime – come la catastrofe del corpo politico sia che tutto continui così com’è. Eppure, proprio nell’Illuminismo matura la consapevolezza che dentro la crisi non si dà luogo esterno, se non quello della critica. È la critica a produrre «una posizione esterna rispetto al potere dominante», a mettersi fuori e secernere non la patologia, ma un’alternativa. Ed è la critica a produrre la crisi come “decisione che risolve”, come istanza politica che si esprimerà a fine secolo nella Rivoluzione.
È questa eredità politica del concetto di crisi che Marx raccoglie, spostandola nell’economico – ma anche qui lavora nel sottofondo una matrice “medica”, sottolinea Gentili. Le crisi di sovrapproduzione provocano epidemie sociali – la ristrutturazione del capitale ristabilirà l’ordine, riaffermerà la norma. Per questo l’operazione marxiana sarà immaginare una nuova semantica politica della crisi attraverso un nuovo uso: quello della rottura, dell’interruzione, dovuto alla falla necessaria del sistema. Un nuovo significato della crisi è quando si pensa la rivoluzione senza tornare indietro.
Ma già con Gramsci si riscopre che l’uso della crisi torna a vantaggio dei potenti, ha una sintassi d’élite che può portare fino alla scelta di un capo carismatico. Fino all’ultima, drammatica svolta, rappresentata da Friedrich von Hayek, lo spericolato economista austriaco dalle solide basi filosofiche, che ha generato una delle teorie neo-liberali più duttili e spietate, fino a ispirare Maggie Thatcher e quell’acronimo dal retrogusto acidulo: TINA (There is no alternative). In Hayek, nel suo ineffabile «partito della vita», domina l’antico pensiero greco dell’ordine prima di tutto, assieme al motto della “catallassi” – scambio, baratto e riconciliazione.
È Hayek a rendere la crisi una questione economica che riporta all’ordine – dopo tanta concorrenza, tanta competizione. È Hayek a comporre l’elegia del mercato come stabilizzatore, come alternativa unica alle derive autoritarie. È lui a spostare il peso della bilancia greca di cui pure si serve dalla giustizia all’ordine. La crisi torna parola di governo, perché il governo mira all’ordine. È patologia che abbraccia l’esistente distribuita tra infinite precarietà individuali in lotta tra loro, e in sotterraneo impercettibile rapporto tra commilitoni. Gentili vi vede, scortato dal Benjamin lettore di Baudelaire, il banditore della forma di vita attuale. Il vangelo secondo Friedrich annuncia il precariato: quel «vivere pericolosamente» che Foucault ha individuato come massima del liberalismo.
Sono pagine difficili e rivelative, perché mostrano la sparizione della rivolta. È una logica dell’anonimato a caratterizzare quella parola ardua di Foucault, “governamentalità”, che affiancata al neoliberalismo restituisce lo stile di vita del presente. Ci adattiamo costantemente, e questo lo facciamo da sempre come specie e come individui, ma lo facciamo sotto minaccia. Siamo governati (comandati, guidati senza guida) «a preservare la propria vita all’interno di quell’ordine che sembra l’unico a garantire la sopravvivenza» (99). Un ordine che è il mercato, che rende gli individui – concorrenti, competitors – molto sedicenti eroici, molto vittime, soprattutto precari.
E se si danno infinite variazioni al tema «stato di eccezione» (e se sono ancora incalcolati gli effetti della diffusione di Carl Schmitt e della sua misera definizione del politico a sinistra), la lettura che ne fornisce Hayek traina da decenni il carro del vincitore. In questa scia Gentili recupera l’osservazione di un Benjamin davvero sull’orlo del precipizio, che ribadisce, memore di una notazione di Karl Korsch, che lo stato d’eccezione per gli oppressi è la regola. «La crisi economica di matrice neoliberale non produce alcuno “stato di eccezione”, ma […] ha fatto dell’eccezione la regola» (10). La crisi, come sempre d’altronde (salvo quel lavoro sotterraneo del moderno, che tra ripensamenti e ritrosie ha comunque prodotto rivoluzioni), suggerisce ordine. Quella neoliberale, anonima, riproduce l’ordine cosmico: il suo provvedimento, sempre emergenziale, sempre adottato appena prima della catastrofe (le misure sono sempre urgenti, ma non sono decisioni imputabili, cadono dal cielo dei mercati), dimentica il politico, ostracizza il conflitto, lo espelle per essere perfetta. Il governo dei tecnici amministra la vita agra dei precari di tutte le classi ordinando più crisi per secernere più ordine.
Ebbene, pare vi sia altro nell’umano, oltre la dispersione nelle passioni tristi di massa. Lo rileva Gentili, con indicazioni scarne ma preziose. Vanno ricercate e potenziate quelle forme che nel cosmo non vedono solo law and order (Gentili recupera la suggestione benjaminiana e deleuziana dell’ebbrezza, come «maniera di sfuggire al giudizio») per renderci meno individui, e spezzare l’orizzonte di isolamento collettivo: «non un cosmo per la vita dell’individuo, ma un cosmo della vita politica in comune». E così in una conclusione affascinante quanto solo allusiva, sfuggire alla crisi vuol dire innanzitutto praticare una decisione senza giudizio, senza la spada di Damocle del «non c’è alternativa».
Vuol dire praticare quella via in comune, perché è questo il tempo in cui davvero occorre esser poco “giudiziosi”. Adelante, sin juicio.